agosto settembre 2020

Podio del Contest di novembre 2020

 

Il nostro giudice d’onore Fabrizio Caramagna ha emesso il suo verdetto, scegliendo i tre racconti “sulla panchina” che ha preferito. A voi la sua scelta con le relative motivazioni.

 

 

1° classificato: La panchina sull’isola che non c’è di Giorgio P.

“C’è una panchina alla fine di un lungo canyon segreto che non è come tutte le altre. Cercatela dentro di voi e la troverete”.
Con questa splendida invenzione finale il racconto invita tutti noi a cercare quella panchina, verniciata di bianco e così diversa dalle altre, che permette di superare il varco spazio-temporale del mondo e ritrovare le persone che ci sono più care.

 

Intervista al nostro primo vincitore, il Breve Scrittrice Felice di novembre: Giorgio P.

Alzi la mano chi non ha mai sognato una panchina come quella sull’isola che non c’è di Giorgio.
Un posto dove venire a patti col passato, perfino correggerlo nel presente, qualora fosse possibile, un’epifania dell’anima che profuma di ritorno a casa piuttosto che di magia.
Anzi la magia a volte è proprio tornare a casa. E farci la pace.
“Non so neppure da dove sia arrivato lo spunto finale, all’inizio volevo solo scrivere un racconto surreale, uno di quelli moderni e prettamente americani sulle porte temporali… L’ho scritto di getto e a un certo punto è stato il racconto a portarmi verso il suo punto finale, verso la fine che voleva per sé. È stato meraviglioso! Ho salvato il foglio di word e mi sono versato da bere.”.
Una delle frasi che preferiamo citare in materia recita: “Si diventa scrittori nel momento esatto in cui si scrive qualcosa che si pensava di non sapere”.
Ogni volta che accade si fa un passo in avanti, non quando si scrive una bella frase, una di quelle che fa molto “romanzo di successo”, ma quando si rilegge ciò che si è scritto e ci si domanda in preda all’emozione da dove siano piovute quelle parole. Brindarci sopra è quanto meno doveroso.
Giorgio si è versato un bel bicchiere di Ripasso, il suo vino da meditazione preferito, e poi si è iscritto al concorso.
“A volte credo di provare a scrivere solo per meritarmi qualche bicchiere in più. Che cliché sorpassato, vero?”.
Ha 54 anni, la prima metà dei quali trascorsi dentro ai canoni: laurea, matrimonio, figli e naturalmente lavoro. È medico, “di famiglia”, come gli preme sottolineare con la voce calda.
“A 50 anni mi è crollato il mondo addosso e ho dovuto affrontare un divorzio imprevedibile che ha mandato per aria i miei piani. Ho sempre letto tantissimo, fin da quando ero molto piccolo. Tre anni fa mi sono messo a scrivere, per conto mio, senza aver studiato, senza particolari ambizioni. In italiano ero bravino, le idee non mi mancano e di fonti d’ispirazione ne ho pure troppe ogni giorno sul lavoro. Ho salvato tutto sul computer. Un domani si vedrà.”.
Il racconto confessa di averlo scritto in meno di un’ora, di essersi seduto al computer nell’0inervallo e aver avuto la famosa illuminazione dopo il primo morso al panino col crudo.
“Speravo di vincere, lo ammetto. L’ho riletto e ho capito che non era perfetto, ma era vivo, aveva una vita tutta sua.”.
Giorgio ha ragione, la sua flash-fiction per Breve Storia Felice è un seme, un piccolo seme capace di crescere dentro a ciascun lettore in modo diverso; i dialoghi, così realistici e domestici, in netto contrasto con la descrizione iniziale e onirica della panchina sull’isola che non c’è, equilibrano il tutto, compiono la magia.
Ci ha scoperto grazie ad un post che avevamo pubblicato mesi fa su uno dei suoi scrittori preferiti: Kurt Vonnegut. Poi ha navigato sotto radar, ripromettendosi di partecipare ad uno dei nostri concorsi quando la situazione Covid si fosse calmata. A novembre ha capito che “bisogna afferrare l’estro per le palle, mai aspettarlo al riparo sugli spalti.”.
Era convinto di essersela cavata più che bene, fino a quando ha letto due racconti nettamente migliori del suo, così ci ha detto.
“Sola di Albi 67 e Due chiacchiere con il principe di Virginia Coral sono di un livello superiore, c’è tanta di quella tecnica in entrambi che mi sono dato dello scemo anche solo per aver partecipato. Non so perché ho vinto io, penso che il merito vada tutto alla panchina sull’isola che non c’è, io c’entro poco.”.

La panchina sull’isola che non c’è di Giorgio P.

Non era una panchina come tutte le altre. Per raggiungerla dovevi nuotare 2 miglia lungo un canyon naturale largo meno di un metro che non permetteva neppure l’uso di una canoa. Ma quando la gola si apriva, la magia si parava davanti agli occhi.
Cinto da una corona di pietra bianca, un isolotto verde con al centro una panchina bianca si stagliava all’orizzonte.
Chi tagliava l’erba così bassa? Chi puliva la panchina? Chi raccoglieva i fiori e li gettava nell’acqua in modo che si formasse un tappeto variopinto e galleggiante ai piedi di quel minuscolo paradiso terrestre?
Raggiunsi la riva immergendomi sottacqua. Il profumo dei fiori mi riempiva le narici, i petali mi rimasero appiccicati al corpo come placenta. Mi accomodai sul legno bianco dopo aver appurato con un dito che la vernice non fosse fresca; era così bianca e immacolata da sembrare dipinta da poco.
Chiusi gli occhi e mi tornò in mente mio padre. Lui adorava le panchine al sole; anche se non era stanco, doveva sedervisi sopra se ne vedeva una.
Quando li riaprii lui era seduto accanto a me, nel suo vestito in lino color cachi.
“Papà, ma sei tu?!”
Era morto dieci anni prima, e mi era mancato ogni mattina da allora.
“Certo, che sono io… Chi vuoi che sia, Mago Merlino?!”
Mio papà rispondeva sempre così quando rincasava la sera tardi e infila le chiavi nella toppa. La porta cigolava, io urlavo dal salotto “papà sei tu?” e lui mi rispondeva esattamente così.
“Come stai, papà?”
“Ho fame.”
“Hai fame?”
“Sì, dove sto adesso non si mangia. Dicono che dobbiamo vivere nello spirito, ma a me le tagliatelle al sugo di tua mamma mancano tantissimo.”
“A me manchi tu, invece. Mi sembra che avevamo ancora tante cose da fare assieme…”
“Tipo?”
“Non so, andare in Sicilia, a Taormina. Dicevi sempre che la volevi vedere prima di morire. Allo stadio…A vedere una partita di Champions League dal vivo… Al cinema. L’ultima volta che siamo andati al cinema assieme avevo 12 anni. E tu amavi il cinema.”
“A me sarebbe bastata una telefonata di tanto in tanto, a dirti il vero.”
Mi sembrò di perderlo di nuovo, di essere di nuovo bambino e di dover crescere senza di lui questa volta.
“Papà, scusami. Sai com’è la vita, passiamo il tempo a correre dietro alle cose.”
“Giorgio, so anche com’è la morte adesso. Dai retta a me: vai a trovare tua madre più spesso e fatti preparare le tagliatelle col sugo. Doppia porzione.”
Era sempre stato difficile parlare con papà. Era più un uomo che faceva i fatti.
Lo abbracciai in silenzio. Non so nemmeno per quanto. Una nuvola oscurò il sole e lui non c’era più.
C’è una panchina alla fine di un lungo canyon segreto che non è come tutte le altre.
Cercatela dentro di voi e la troverete.

 

2° classificato: Due dita d’amore di Luca Mari


Il racconto – attraverso la metafora della mano e delle dita che si cercano, si intrecciano, si lasciano e si ritrovano – descrive in modo poetico, intimo e delicato le vicissitudini di una storia d’amore.

 

 

Intervista alla Secondo Classificato del contest di ottobre: Luca Mari

Scrivere di amore è una delle cose più difficili da fare. Tutti ci provano, pochi ci riescono veramente.
Il rischio è quello di cadere nel banale, o nel retorico, o nel già letto o nel già scritto, i quattro errori capitali con cui si finisce nel girone delle penne amatoriali.
Il racconto di Luca ci ha stupito per la sua voce originale, per delle immagini che abbiamo visto o vissuto o sognato mille volte, ma che sembrano colate sul foglio, nero su bianco, per la prima e ultima volta.
La sua scrittura è esperta, sa dove vuole portarti e sa farlo prendendoti per mano, senza strillare vicissitudini d’amore, dolore e vuoto.
Per 385 parole Luca tinge il mondo di viola, di leggeri bagliori dentro all’ovatta di una storia appena finita.
Il suo protagonista è in stand-by, così come il lettore, entrambi seduti accanto su una panchina emotiva che tutti, almeno una volta nella vita, si sono ritrovati davanti.
E Luca è bravissimo ad invitarti a sedertici sopra.
La nostra medaglia d’argento nella vita fa il programmatore informatico, un lavoro a suo dire che richiede una certa creatività.
“Devi intravedere alcune porte anche se non le puoi vedere, immaginarti spazi da riempire, scatole a più scomparti. Credo ci sia creatività in tutto questo.”.
Può darsi. Forse si tratta di allenamento alla creatività, più che di creatività allo stato puro, ma potremmo sbagliarci; una sorta di forma mentis che fa far ginnastica alla mente senza gonfiare solo il muscolo della logica ma anche quello della fantasia.
“Non avrei potuto spiegarlo meglio.” – ci dice – “Dopo tutto quell’allenamento, una volta alla settimana sento il bisogno di una partita vera. Una con il punteggio. Mi siedo davanti al computer dopo cena e mi metto a scrivere. Non so neppure di cosa scriverò, so che mi aiuta a sentirmi leggero, a farmi due risate o ad emozionarmi davvero. È iniziato tutto ad un corso di scrittura creativa di quartiere. Era sotto casa e ho visto che ci partecipavano molte ragazze…”.
Si interrompe, come se temesse un nostro giudizio, ma con noi casca in piedi, i tabù da circolo letterario vecchia maniera ci vanno stretti e scomodi.
“Tranquillo, l’arte è come la storia. Sono i critici e gli storici che tracciano un nesso inevitabile tra gli eventi, in realtà molto di ciò che accadde dentro ad una passione, nove volte su dieci, è casuale e senza un piano preciso.”.
Prosegue: “Mi sono detto, dai che forse trovi il famoso chiodo scaccia chiodo. Sono passati 4 anni da allora e altri 4 corsi. Ormai scrivere è diventata la mia droga…Un bisogno. Ho detto droga perché non so quanto sia un bisogno sano.”.
Ridacchia. E noi immaginiamo che quel primo chiodo che aveva bisogno di essere cacciato sia la protagonista assente del suo racconto per Breve Storia Felice, la donna che “lo reggeva in piedi, sulla punta del mondo, con due sole dita”.
Ama una scrittrice su tutte: Margaret Mazzantini, e poi al secondo posto, da sempre, c’è Dacia Maraini.
“Scrive come un fiume, le sue parole scivolano via trasparenti e pure, con la calma dell’ineluttabilità, del tutto è connesso, il passato con il presente, le cose perse con quelle ritrovate… Ho iniziato a scrivere racconti al primo corso, provando ad imitare la sua scrittura. Lo so, è stupido, ma ha funzionato, mi ha sbloccato.”.
Gli ricordiamo che perfino i surrealisti nella Parigi degli anni ‘30 facevano così: partivano da un romanzo famoso, lo riscrivevano a macchina dalla prima riga, fino a quando i tasti iniziavano a battere le loro parole e non più quelle dei grandi classici.
“Forse sono nato nell’epoca sbagliata.” – ci ha risposto sognante.

Due dita d’amore di Luca Mari

Mi reggeva con due sole dita. Esile come un giunco, riusciva a farmi volare per metri solleticando il palmo della mia mano con le sue mani sottili infilate tra le mie.
Adorava le mattine fredde, le passeggiate quando ancora non c’era nessuno in giro. E se il sole si nascondeva tra gli alberi mi diceva piano: “Vieni, sediamoci nel nostro posto di mondo, aspettiamo che esca di nuovo”.
Sapevo che si sarebbe riscaldata le mani gelide dentro le mie.
“Le tue mani sono sempre calde, ma come fai?”
Non lo so come facevo, adesso ho gli arti ghiacciati come una bottiglia vuota gettata nell’oceano senza messaggi da regalare a qualcuno.
Era allora che iniziava a scrivere amore sul mio palmo, con la punta dei suoi polpastrelli appena su di me, un gesto infantile quanto eterno, un riflesso incondizionato della nostra relazione che coglievo solo io seduto sulla nostra panchina.
Mi piaceva che restasse segreto, che fosse la nostra nota sommessa sulla tastiera universale dei sentimenti.
Alcuni adorano le dichiarazioni in pubblico, altri i gesti plateali, i nostri vicini litigavano così veementemente per farci sapere che ardevano di passione; a noi due bastava l’impercettibile soffio della nostra pelle, nel buio di una stretta di mani.
Ci sono mattine in cui apro gli occhi e allungo la mano nel letto, sotto alle nostre lenzuola, alla ricerca di un tuo contatto, nella vana speranza di rivivere quella scritta d’amore un’ultima volta.
Mattine in cui con una mano imito la tua dentro alla mia.
Mi sono dimenticato anch’io di chiederti come facessi.
Come si fa a reggere un uomo in piedi sulla punta del mondo con due sole dita?
Mi arrabbio perché sbaglio ogni volta a sfiorare il mio cuore. A volte troppo forte, a volte senza crederci, a volte sbaglio perfino la grandezza di quei cerchi con cui cingevi il mio io, proteggendolo dal resto. E così temo di averti dimenticata, di non averti scritto riga per riga dentro di me quando ne avevo ancora il tempo.
Oggi sono andato al parco, amore mio, ho aspettato il sole, e quando finalmente è uscito allo scoperto, ho capito come fare. Ho aperto il palmo della mia mano, l’ho appoggiato sul legno freddo della nostra panchina e i tuoi raggi ci hanno scritto di nuovo dentro.

 

3° classificato: Microbi di Adele 63

Il racconto descrive il senso di vuoto e la nostalgia che nascono quando perdiamo i nostri nonni. La metafora dei microbi, che sono ovunque intorno a noi, anche se non possiamo vederli, crea un intreccio narrativo dove a poco a poco si forma un magico ponte tra il visibile e l’invisibile.

Intervista alla Terza Classificata del contest di novembre: Adele 63

Alcuni di noi scrivono per fare ordine, altri per l’esatto contrario, per scappare dagli schemi del reale e rifugiarsi nella fantasia. Adele scrive perché la aiuta a mettersi alla prova, a non riposare sui proverbiali allori della fiducia solo perché ha appena soffiato su quaranta candeline.
“Passo nove mesi a giudicare gli altri, credo che sia salutare e utile farmi giudicare a mia volta.”.
Adele è professoressa di italiano in un liceo privato di cui preferisce non rivelarci il nome. Lo sognava da sempre di insegnare la nostra lingua agli adolescenti, di fornire loro un’arma in più per il futuro sempre più incerto dei nostri giorni.
Le raccontiamo che in America, oltre a studiare letteratura americana ed estera, gli studenti delle materie umanistiche sono chiamati a confezionare saggi scritti da saper esporre anche oralmente davanti ad un pubblico.
“In Italia molti miei colleghi hanno abolito i temi in classe, sono convinti che si scriva più oggi, con i social, che ai nostri tempi. Io penso che l’impoverimento del linguaggio sia dovuto proprio a Facebook e compagnia… Anzi, continuare a scrivere strafalcioni convincendosi che la loro correttezza dipenda dal numero di like che ricevono è quanto di più pericoloso.  Crea abitudini espressive sbagliate difficilmente sradicabili.”.
Vorremmo applaudire, ma noi di Breve Storia Felice siamo il primo concorso letterario interamente social d’Italia; ci hanno insegnato che non si sputa nel piatto in cui si mangia.
Chiediamo ad Adele se sognava di diventare scrittrice, ma ci conferma che sognava di diventare insegnante d’Italiano. Né più né meno.
“Mi piace la grammatica, la sintassi, adoro la punteggiatura, l’idea che ci sia un codice convenzionale che detta i tempi dei nostri pensieri. Poi da lì a saper scrivere ce ne passa. Conoscere e insegare tutte queste regole e convenzioni è solo il punto di partenza nello scrivere, la correttezza dell’Italiano dovrebbe essere una conditio si ne qua non, e invece adesso è sinonimo di bravura letteraria. Siamo davvero caduti in basso, nella patria dei Dante, dei Manzoni, dei Petrarca, dei Pirandello…”.
Le chiediamo se c’è un contemporaneo che ammira e lei ci ripete il nome di Pirandello.
“Pirandello sarebbe attuale e geniale ancora desso. Ma se devo citare uno scrittore contemporaneo che credo abbia toccato vette altissime, faccio volentieri il nome di Umberto Eco. Una divinità per me.”.
Come darle torto. Eco è probabilmente lo scrittore moderno che più ha dedicato la sua vita alla ricerca della lingua perfetta, e non nel senso “scolastico” del termine, bensì nella portata imperfetta del linguaggio italico, dei suoi dialetti, capaci di realizzare quella suprema imperfezione che al suo apice lirico chiamiamo poesia.
“Avrei voluto che il mio professore d’italiano al tempo fosse Umberto Eco, che mi insegnasse tale dedizione   per la lingua italiana e per le sue possibilità quasi perse ormai. E invece ho avuto un pessimo insegnante, così a 14 anni mi sono riproposta un domani di essere la professoressa d’italiano che avrei sognato per me stessa.”. Adele fa una pausa, poi si concede un sogno da infilare nel cassetto.
“E poi Eco ha fatto il suo ingresso nel mondo della narrativa a 48 anni, per cui pensare a lui mi mette di buon umore, mi fa credere che ci sia sempre tempo.”.
Ha scritto il suo “Microbi” in poco più di un’ora, poi l’ha lasciato riposare per giorni.
Una pagina di Instagram che segue aveva menzionato il nostro concorso e l’idea del racconto brevissimo l’ha convita a partecipare. Anche se non era mai andata oltre a qualche pagina scritta a mano per dei romanzi solo gestati e mai portati alla luce.
“È stato più complicato il racconto di agosto. Non avevo mai scritto fiction vera e propria. Avevo letto di una donna picchiata dal marito e mi è venuta in mente quella storia. Microbi, invece, è un tema che mi sta a cuore. Mi manca mio nonno da 20 anni. L’ho perso quando avevo compiuto i miei primi venti e lui per me rappresentava il mondo che amavo. Quello della preparazione, della saggezza, dell’equilibrio e dei valori concreti. Tutta questa liquidità moderna dei non luoghi, dei non sessi, dell’indefinito come pregio mi nausea. Mio nonno era l’esatto opposto.”
La grande magia racchiusa nelle sue 500 parole è la metamorfosi dal reale al metafisico, senza che il lettore neppure se ne accorga. Come se fosse un passaggio naturale.
“Non era voluto… Però vi ho inviato il racconto proprio quando mi sono accorta che funzionava.”.
È lo stesso motivo per cui il nostro giudice d’onore, Caramagna, l’ha voluto sul podio.
Adele non ha ambizioni da scrittrice – ci rassicura – per lei gli scrittori sono persone speciali, che non solo custodiscono la correttezza grammaticale, ma che al di là dei mezzi tecnici cullano anche una visione speciale sul mondo.
Noi pensiamo che un’insegnate d’italiano così la dovrebbero pretendere tutti nel nostro Ex-Bel Paese delle arti.

Microbi di Adele 63

Ogni giorno si sedeva nello stesso punto.
Non proprio a metà della panchina, perché da lì non riusciva a sentire nonno che aveva un filo di voce in gola, non troppo vicino al bracciolo perché a nonno non piaceva sedere con le gambe chiuse, le apriva sempre a forbice, così stava più comodo.
Erano cresciuti assieme, Nicolò in statura, nonno in capelli bianchi.
Pomeriggi interi a leggere e a esplorare il mondo dentro ai libri. Poi nonno si era ammalato e l’inverno non era più diventato estate.
Nicolò aveva chiesto di tornare al parco. Anche da solo. Aveva 12 anni ormai, e una bici, l’ultimo regalo di nonno prima di andarsene in cielo.
“Nicolò, con questa voglio che tu mi venga a trovare… Sarò sempre seduto sulla nostra panchina, non riuscirai a vedermi ma io sarò lì. Ti ricordi quando abbiamo letto dei microbi, che sono ovunque attorno a noi anche se non li possiamo vedere? Io sarò un microbo, sarò sopra una foglia, o un sasso, sentirò tutto quello che mi dirai.”
Nicolò, la prima volta, non ebbe il coraggio di sedersi, continuò a girare in tondo con la sua bici nuova davanti alla panchina.
“Guarda Nonno! So andare senza mani! Guarda nonno, so fare impennare la ruota davanti!”
Gli sembrò quasi di sentirlo, con il suo filo sottile di voce.
“Stai attento, Nicolò, vai piano.”
Cadde e si sbucciò il ginocchio. Si convinse che nonno fosse davvero lì con lui.
Tornò il giorno dopo. Legò la bicicletta alla gamba destra della panchina e si andò a sedere vicino all’angolo sinistro, quello preferito di nonno, e aprì il loro libro di storia.
Lesse ad alta voce, adesso che nonno era diventato microbo toccava a lui farlo.
Si guardò intorno, immaginando dove potesse essersi appoggiato.
“Nonno sei su questa pietra?”
“No, Nicolò, guarda meglio.”
“Ah, eccoti, ti ho trovato!”
Caduta dal cielo, una piuma d’uccello bianca come i capelli di nonno si era posata ai suoi piedi.
Lessero assieme, discussero degli Assiri, poi nonno gli ricordò che era tardi.
“Ci vediamo domani, buona notte nonno!”
“Buona notte Nicolò.”
Il giorno dopo la piuma era ancora lì e ci rimase per altre due settimane. A dicembre scomparve e Nicolò la cercò ovunque.
Tornò alla sua panchina sconsolato. Non riusciva più a sentire la voce di nonno.
Seduto al suo posto c’era un signore con i capelli bianchi e un libro in mano.
“Posso sedermi?”
“Certo. Accomodati.”
“Sa, questa era la panchina mia e di mio nonno, ma adesso lui è diventato un microbo. Non lo posso più vedere ad occhi nudi.”
“Capisco. Anche i miei cari sono diventati microbi tanto tempo fa. Bisogna parlare loro con la mente.”
Nicolò non si sentì più solo. Anzi, fu rincuorato. Lui sapeva già farlo, erano settimana che parlava a nonno nella mente.
“Cosa legge?”
“Un libro sui Borgia, una famiglia importante di tanto tempo fa che non sempre si comportava per bene.”
“Possiamo leggerlo assieme?”
L’uomo iniziò a leggere ad alta voce, rimasero lì seduti un pomeriggio intero.
“Secondo lei i microbi possono appoggiarsi sopra alle persone?”
“Credo di sì.” – rispose l’uomo.
“Allora non si cambi la giacca domani.”
E l’uomo si presentò al parco con la stessa giacca per tutto l’inverno.

MENZIONI D’ONORE novembre

 

State diventando sempre più bravi perché per il secondo mese consecutivo abbiamo avuto difficoltà nel menzionare solo 3 racconti tra i tanti che meritavano. Abbiamo confabulato in redazione (si riscontrano feriti ma nessuno versa in condizioni gravi), abbiamo scambiato pareri con il nostro disponibilissimo e solerte giudice d’onore e siamo riusciti ad estrarre dal cilindro tre soli nomi. A voi i menzionati del mese!  

 

Il guardiano del niente di Stilografo
C’è mancato poco che Fabrizio Caramagna non lo mettesse sul podio. Un Aspettando Godot 2.0, seduti sulla panchina. Sprazzi di talento fulgido in una cinquantina di righe a cavallo dei nostri non-tempi.

 

 

Due chiacchiere con il principe di Virginia Coral
Un piccolo grande capolavoro, un rigurgito dell’anima che Virginia Coral, con la sua induplicabile grazia letteraria, trasforma nella più universale delle storie umane. La sua panchina è un pretesto sublimato in arte narrativa.

 

 

Sotto la grande quercia di Loredano Cafaro
A volte ritornano… Esattamente come Loredano, che ha un modo tutto proprio di rimettere a posto la realtà con la sua twilight zone letteraria, quel momento su carta in cui la linea dell’orizzonte narrativo scompare, lasciandoci su quel confine del mondo emotivo in cui tutto è ancora possibile

GIURIA POPOLARE di novembre

ALLEN con “Contatto”
e 
Giovanna A. Busacca con “Se una sera d’Autunno…”

 

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