marzo 2021

 

Podio del Contest di giugno 2021

 

 

La prima lista che elencava le sette meraviglie del mondo risale al 140 a.C.; è una poesia di Antipatro di Sidone in cui il letterato greco elencava: la Piramide di Cheope, i Giardini Pensili di Babilonia, la statua di Zeus a Olimpia, il Tempio di Artemide a Efeso, il Colosso di Rodi, il Mausoleo di Alicarnasso e il Faro di Alessandria d’Egitto. La lista è stata riaggiornata nel corso dei secoli svariate volte fino ad arrivare ai nostri giorni. Noi questo giugno vi chiediamo di raccontarci quella che per voi è L’Ottava Meraviglia del Mondo. In redazione c’è chi ha votato per la burrata, chi per Eddie Veder e chi ancora per il romanzo-cattedrale che non ha ancora scritto; voi chi o cosa scegliereste come ottava meraviglia del mondo? 

 

Benedetta Vassallo

 

Il riferimento al NUMERO OTTO della traccia di giugno è decisamente voluto e assolutamente non casuale perché giudice d’onore di questo mese è una delle fondatrici e publisher della stilosissima nuova casa editrice milanese 8tto Edizioni (www.8ttoedizioni.com): Benedetta Vassallo! Editor per molti anni di un’importante casa editrice italiana, ha deciso di mettere in piedi assieme ad altre 3 colleghe la propria casa editrice che, nonostante abbia mosso i primi passi durante la pandemia, ha colpito Breve Storia Felice con romanzi che meritano l’attenzione di chiunque ami la lettura e la scrittura e dando visibilità anche alla nostra tanto amata narrativa breve. Per cui Penne Felici datevi da fare, Benedetta Vassallo aspetta i vostri racconti sull’ottava meraviglia del mondo!

 

PODIO DI GIUGNO 2021

 

Benedetta Vassallo di 8tto Edizioni ha avuto qualche dubbio nello scegliere la medaglia di bronzo, ma alla fine ha decretato il suo podio tecnico con tutta la cura e lo sguardo indipendente che caratterizza la casa editrice di cui è publisher e cofondatrice.

1° classificato: “Usan Lin” di Mister Chang

Una delicata fiaba nostalgica che racconta quanto sia importante partire per poter germogliare, a patto che le radici rimangano sempre ben salde là, in quel posto immutabile chiamato casa.

 

Intervista al nostro primo vincitore, il Breve Scrittore Felice di giugno: Mister Chang

Esiste una Mrs. Chang dietro al racconto vincitore di giugno. Ce l’eravamo chiesto in redazione, ma ci sembrava impossibile che una penna madrelingua cinese potesse vantare tale padronanza dell’italiano.
La ragione era dietro l’angolo. Mister Chang è pugliese e vive da 5 anni a Milano. Mrs. Chang è la sua fidanzata – dopo un corteggiamento lunghissimo – e sua musa letteraria.
“Mi ha raccontato talmente tante storie sulla sua famiglia e la sua infanzia in Cina che un po’ sono diventate le mie… Quando le ho detto che avevo scelto una pianta del tè come ottava meraviglia del mondo mi ha sgridato. Tu dovevi scegliere il Duomo, mi ha detto.”.
Ma il nostro Breve Scrittore Felice di giugno non ha dubbi in proposito.
“Credo di aver fatto la scelta migliore, sia davanti al foglio bianco che in amore…”.
Fin da ragazzino era affascinato dalla cultura orientale; quando è arrivato a Milano si è praticamente trasferito a China Town, trovando il suo angolo elettivo di mondo.
“Scrivere una storia tra virgolette cinese è stata una scelta automatica. Adoro questo loro legame fortissimo con le origini, con le tradizioni, questo senso di attaccamento alla loro terra nel bene e nel male. Noi abbiamo perso il senso di nazione, il valore del passato, il rispetto per tutto ciò che i nostri antenati hanno costruito per chi sarebbe venuto dopo di loro. In Cina no. In Cina i gesti più antichi vanno protetti al pari dei panda, perché ci dicono chi siamo anche quando siamo lontani da casa.”.
Mister Chang non aveva mai partecipato ad un concorso in vita sua prima di questo giugno; però ha fatto un corso di sceneggiatura 3 anni fa che gli è rimasto nel cuore. Sognava di fare il regista o l’attore, di essere uno strumento per raccontare storie agli altri.
La sua non è una scrittura sofisticata, procede lineare, per immagini e visione d’insieme. Sorretta da dialoghi efficaci e intenzione. Eppure arriva su ogni centimetro della pelle, anche quelli che non sapevamo di avere.
Non c’è una ricetta esatta perché ciò accada; forse l’ingrediente segreto è la cura con cui si maneggia una storia. Più ci tieni, più si impregna di verità letteraria.
Quella di Usan Lin è una storia che il Nostro Breve Scrittore Felice di giugno voleva raccontare da tempo, gli picchiettava in testa da quando Mrs. Chang, una sera, gli ha raccontato di suo nonno: immigrato in Italia negli anni ’70, è tornato in patria da poco e fatica a riconoscere il suo paese; l’unica cosa che non è cambiata sono le piantagioni di tè vicino a casa.
“Mio nonno parla alle piante ogni mattina quando le innaffia…È bastato quel lampo di ispirazione parallelo per far scaturire l’intera storia e dare un nome e un’identità precisa alla mia ottava meraviglia del mondo…”.
Non si aspettava di vincere, gli era bastato arrivare al punto finale e sentirsi appagato.
“Quando l’ho letto alla mia fidanzata si è commossa e mi ha obbligato a inviarvelo, altrimenti ci sarebbero state alte probabilità che finisse in una cartelletta in fondo a destra sul desktop…”.
Dei racconti in gara ha amato particolarmente “Zia Mapi” di Manu S. perché tutto ciò che ha un sapore vintage e cinematografico lo attrae; e poi “Atomic Bar” di GiulyRed.
“Ho sempre sognato di ideare una serie televisiva incentrata attorno ad un bar della periferia italiana. Il suo bancone è il centro dell’universo per quattro ragazzi annoiati che scopriranno poi la vera noia solo il giorno in cui la saracinesca del bar si abbasserà per l’ultima volta sulla loro età adulta. È stato un déjà-vu.”.
Mister Chang non ha voluto rivelarci il suo vero nome, ma forse riusciremo a berci una birra assieme in China Town. O magari un tè, chi può saperlo. Chiacchierare con lui ci ha fatto venir voglia di altri ritmi, altri tempi, altri modi di vedere le cose.

 

Usan Lin di Mister Chang

Zhao appoggiò le dita sul legno umido. Era ruvido come le mani di suo nonno.
Il giorno in cui gli aveva regalato quella piccola pianta da tè, non aveva creduto di potersi affezionare ad un tronco senza foglie.
“Ti regalo questa pianta perché tu possa sempre avere un amico.”
Quando il nonno di suo nonno stava per morire aveva fatto lo stesso, e così il nonno del nonno di suo nonno.
“Le piante tengono i segreti Zhao. Quando non saprai a chi confidarli, confidali a lei.”
La primavera successiva, il primo germoglio era spuntato e Zhao aveva dato un nome al suo regalo: Usan Lin, Foresta di giada. Era il nome di suo nonno e già gli mancava.
Iniziò a parlargli di tanto in tanto e Usan Lin lo ascoltava in silenzio.
“Oggi ho preso un brutto voto a scuola…”
“Credi sia sbagliato voler lasciare casa per vedere il mondo?”
Usan Lin assorbiva quelle piccole verità nascoste e cresceva.
A 18 anni Zhao partì dopo aver annaffiato Usan Lin un’ultima volta.
“Non so se ci rivedremo ancora, ” – sussurrò, accarezzandogli le foglie verdi e lucide – “Non so se tornerò a casa. Ma se mai dovessi farmi una famiglia altrove, regalerò una pianta di tè a mio nipote. Te lo prometto.”
Ebbe una vita avventurosa, visitò l’Africa, l’Australia, l’Europa, fece ogni tipo di lavoro, dal magazziniere, al custode, all’aiuto stampatore per un piccolo giornale in lingua cinese pubblicato dai suoi connazionali a Milano, in Italia.
Non sentiva la mancanza di casa, ma a volte pensava a Usan Lin, a quella piccola pianta da tè che aveva saputo ascoltarlo quando più ne aveva avuto bisogno.
Si fece una famiglia, in Francia, dopo aver conosciuto una donna della sua età che aveva lasciato casa qualche anno dopo di lui. Si era trasferita da una zia che aveva un ristorante a Parigi e non era più tornata in Cina.
Yu Mei, Elegante. E infatti quando l’aveva incrociata in Place de la République era rimasto folgorato dalla sua grazia.
Si erano sposati 2 anni dopo e nove mesi più tardi era nato Dong, Oriente. Perché i nomi che scegliamo per gli altri sono ciò che ci saremmo augurati per noi in un’altra vita.
E fu così che Dong, a 18 anni, chiese a suo padre di potersi trasferire in Cina, per scoprire le proprie origini.
Partì a primavera, quando le foglie di tè germogliano. Chiamò una settimana dopo, da casa di Zhao.
“La nonna dice che devi tornare prima che lei muoia.”
La richiesta lo rese infinitamente felice.
“Chiedile se Usan Lin c’è ancora?”
“Chi è Usan Lin papà?”
“Tu chiediglielo e basta.”
La cornetta rimase muta per alcuni minuti, poi Dong parlò.
“La nonna dice che devi scoprirlo da solo.”
Zhao tornò a casa dopo 40 anni. Era cambiato tutto tranne il suo villaggio, uno degli ultimi angoli di Cina in cui non si era intrufolato l’Occidente.
Abbracciò sua madre, le sue cugine e Dong. Poi corse in giardino.
Usan Lin non era più una pianta, era un grosso albero di 3 metri con un foro rotondo nel centro del tronco.
“Sono tornato amico mio.” – sussurrò dentro alla cavità – “Avevo paura, sai…”
“Di cosa Zhao?” – gli domandò Usan Lin.
“Paura che la mia Cina non fosse abbastanza, che non mi avrebbe mai capito…”
Dong arrivò da dietro e appoggiò una mano sulla spalla del padre.
“Che fai papà? Parli con un albero?”
“È lui Usan Lin. È stato il mio migliore amico fino ai 18 anni. Promettimi che gli confiderai tutti i tuoi pensieri più nascosti quando io sarò partito. Fidati, sa tenere i segreti.”
Dong sorrise e poi fece cenno di sì con la testa.
Zhao andò a dormire presto quella sera perché era stanco dal viaggio. Trovò un ritaglio di giornale in camera sua con la foto di Usan Lin e un trafiletto che lo definiva l’ottava meraviglia del mondo.
“In una piccola cittadina del Chongqing c’è la pianta di tè più alta e longeva che si conosca…”
Udì un rumore in giardino e lo scorse dalla finestra: Dong che sussurrava qualcosa a Usan Lin.
“Credi che solo lontano da casa si possa essere felici?”

 

 

2° classificato: “In due” di Riccardo Negri

In un futuro distopico in cui la solitudine è diventata l’unica forma del vivere, forse l’ottava meraviglia è la nostalgia di un momento da condividere, una ruota che gira nel vuoto, imponente testimonianza della bellezza del superfluo.

 

Intervista al Secondo Classificato del contest di giugno: Riccardo Negri

Dino Buzzati era un grande osservatore della realtà viva, un narratore di quotidianità e di eccezionalità dentro a quel quotidiano che si divideva tra giornalismo e letteratura.
Guarda caso la nostra medaglia d’argento non solo adora leggere i nostri racconti-lampo su Breve Storia Felice, ma cita come suoi racconti preferiti in assoluto quelli di Buzzati.
Guarda caso Riccardo è anche giornalista, ha dimestichezza con la parola scritta, con l’andamento di una narrazione, indipendentemente dal fatto che la storia raccontata sia realmente accaduta o frutto della sua immaginazione.
“Due anni fa mi sono imbattuto, per caso, in un concorso letterario su Facebook, e ho deciso di cimentarmi. Poi ho scoperto voi.”.
Il suo racconto di febbraio, “Testolina”, ha portato a casa la menzione d’onore della redazione regalandoci la piccola grande storia poetica di un’amicizia tra un gattino “custode” e un padre alle prese con la malattia del figlio. Nel racconto vincitore di giugno Riccardo ha cambiato completamente registro, creando un mondo distopico dalle atmosfere post cyber-punk in cui spicca un’altra volta la sua prosa pulita, i suoi personaggi schizzati nelle parti che contano e lasciati poi al lettore per tutto quanto il resto, un linguaggio e uno stile che non puntano mai a farsi belli, a commuovere, o a divertire, ma rispettano la storia e i suoi tempi, con ogni piccola ansa che esiste nella vita vera illuminata sul foglio con pochi tratti e poche scelte esatte.
Non appena ha letto la traccia, a Riccardo è venuta in mente l’immagine di una ruota panoramica abbandonata a Cernobyl, ma mancava un “gancio” per far funzionare la storia; ha lasciato macerare le idee in testa, appuntandosi degli spunti su un foglio di carta, e quando ha capito come trasformare quel totem di umanità felice in ottava meraviglia di un mondo scomparso, ha confezionato il suo breve racconto in poco tempo.
“Sono abituato a scrivere e ad avere scadenze pressanti; il grosso del lavoro è più la gestazione, che richiede qualche giorno, così come la fase successiva, quando lascio riposare ciò che ho scritto sul foglio e lo riprendo in mano dopo averci dormito sopra per sistemare le ultime parole.”.
Gli chiediamo se il nome del suo protagonista, “Zucker”, sia un chiaro riferimento a Zuckerberg, e ci dà conferma positiva. Forse chi è giornalista ha più bisogno di altri scrittori di ancorare le proprie storie inventate a qualcosa di reale, o forse Riccardo ha la stessa serietà di Buzzati quando si metteva in testa di comunicare con ogni elemento di cui aveva a disposizione all’interno di una storia, compresi i nomi dei suoi protagonisti.
La nostra medaglia d’argento ci svela candidamente che il suono gli ricordava quello dell’italico “zucchero” e gli serviva un protagonista al tempo stesso simbolo di un mondo isolato dentro ad una bolla virtuale post pandemia così come un ragazzo virginale alle prese con qualcosa che lo sovrasta emotivamente.
Dostoevskij diceva che le sciocchezze sono più che necessarie, sia sulla terra che nella scrittura, entrambe si basano su di esse, sui piccoli dettagli apparentemente inutili o ininfluenti che fanno invece accadere le cose.
Ve lo diciamo perché crediamo possa far piacere a Riccardo che ci cita “Delitto e Castigo” come suo libro preferito di sempre. Non lo dice per farsi bello, anzi, raddrizza subito il tiro.
“Non farmi più colto di quanto sia, leggo di tutto, ogni genere, i classici così come il successo del momento, sempre due libri alla volta, uno durante il giorno e uno prima di dormire. Al momento sto leggendo “Saltatempo” di Stefano Benni e “Kafka sulla spiaggia” di Murakami e preferisco decisamente il primo… Non so, Murakami scrive decisamente bene, ma il soprannaturale mischiato a quella maniera con il quotidiano non fa per i miei gusti.”.
Dei racconti di giugno ha amato particolarmente quelli sul podio assieme al suo, forse perché entrambi autenticamente flash-fiction come la sua, storie di totale finzione letteraria in cui si racconta la propria metafora di vita vera.
Di Breve Storia Felice gli piace la possibilità di essere letto subito e da più persone, di avere un riscontro tangibile con il pubblico.
“Era la cosa che mi bloccava all’inizio. L’idea che avrei dovuto misurarmi con i lettori dell’etere e con giudici professionisti. E invece è la cosa che fa la differenza.”.  
Come diceva Buzzati: “Anche il più nobile sentimento si atrofizza e si dissolve a poco a poco, se nessuno intorno ne fa più caso. È triste dirlo, ma a desiderare il Paradiso non si può essere soli”.

“In due” di Riccardo Negri

«Gentili visitatori – riprese la voce impersonale della guida – con la prossima scena giungiamo all’ottava meraviglia del pianeta Terra».
La solita scossetta dentro il cranio e Zucker si trovò sospeso coi piedi nel vuoto. Diversi metri sotto, un raduno di gente passeggiava e si assembrava tra vivaci baracchette e luci artificiali. Spiccavano colori ormai quasi dimenticati, il verde, l’azzurro. Arrivavano una musichetta festosa e antiquata, e un gemito sferragliante di cui non sapeva individuare la fonte. Nel cervello gli si formava un odore caldo e dolciastro, forse qualcosa da mangiare.
Aprì pollice e indice per allargare l’immagine e realizzò di trovarsi solo su un traballante seggiolino a due posti che saliva lentamente.
Mulinò il polso per modificare la prospettiva; e si vide, dall’esterno, appeso a una specie di enorme cerchio che rotolava lento su se stesso.
«Documenti salvati dalla Seconda Piaga, risalenti al XXI secolo dell’era Terrestre – spiegava intanto la guida virtuale – raccontano che gli antichi Uomini trovavano in qualche modo gratificante un giro su quelle che chiamavano Ruote panoramiche, o delle meraviglie».
«Come mai?» domandò la voce di uno dei partecipanti all’escursione.
Zucker sfiorò la stanghetta degli occhiali per osservare con più attenzione.
«Stando alle testimonianze preservatesi – rispose senza enfasi l’assistente – trascorrere alcuni minuti sulla Ruota era una sorta di tradizione, di saluto alla stagione calda. Ruote come questa venivano innalzate in occasione delle feste popolari. Noterete altresì che i seggiolini erano doppi: pensiamo si salisse in due per farsi reciprocamente coraggio, o forse per trascorrere momenti di intimità con una persona con cui c’era particolare sintonia. Ricorderete certo che sulla Terra c’era ancora l’usanza di costituire coppie, o piccole comunità umane, tendenzialmente stabili per tutta la vita».
Zucker sogguardò l’immagine del posto vuoto al suo fianco. Non riusciva a concepire che un’altra persona potesse occuparlo.
Irruppe una voce squillante, tra divertita e sconcertata: «Mi scusi ma… in due? Assieme?».
Probabilmente lo chiedevano sempre. «Un giro sulla ruota – proseguì imperturbabile la voce guida – era, secondo i nostri studi, un modo per celebrare quello che all’epoca chiamavano amore, o amicizia. Parliamo come ovvio di tecnologie obsolete, di forme elementari di legame, avulse da logica e raziocinio».
Zucker puntò l’indice davanti a sé per evidenziare l’autore della domanda. All’immagine della ruota che avanzava ferma al suo posto, si sovrappose quella di un bambino. A giudicare dall’età e dall’uniforme grigia, poteva essere della Sesta Cova: era la prima volta che ne vedeva uno.
«Avevamo accennato a qualcosa del genere – proseguiva intanto la guida – anche a proposito della quarta meraviglia. Ricordate? La Biblioteca».
Zucker sventagliò la mano per ammutolire la voce e disattivare filtri e info. Gli uscirono dalla testa con un lieve risucchio. Rimase solo dentro la visione della ruota cigolante, i piedi sospesi nel vuoto. Attese, un mezzo giro; poi sfilò l’anello digitale e gli occhiali cocleari e si ritrovò nella sua cabina. La lucina di cortesia ritagliava il profilo della cuccetta, il tavolo da lavoro, il contorno del vano-armadio e dello sportello per i pasti.
Ordinò al controller di sollevare la tendina dell’oblò. Non lo faceva da tempo. All’istante le pareti del cubicolo si tinsero del violento bagliore rosso riflesso da Marte.
Rimase per un po’ a fissare le tenebre. Attraverso il cristallo vedeva la coda lucida della capsula protendersi nel vuoto, appoggiata come un bilanciere ginnico sull’assenza di gravità. Le eliche e le ventole della struttura ruotavano pigramente. Il riflesso aranciato sulle pareti sfumava man mano che la stazione cosmica completava la sua rotazione.
Nell’angolo in alto della finestrella fece capolino come per caso la Terra. Una pallina smorta. Eppure c’era stata vita laggiù. Il genere umano l’aveva abitata per millenni; e vi si era in qualche modo evoluto; ed era giunto, dopo la Seconda disastrosa Piaga, all’inevitabile decisione di fuggire.
La scrutò con intenzione, mentre scompariva di nuovo dalla visuale.
Indossò il visore per accedere ancora al tour. Con lo switch si divertì a far sedere nel seggiolino simulato, di fianco a sé, gli avatar degli altri visitatori: un vecchio ufficiale in divisa nera, una ragazza che aveva incontrato qualche volta in chat, il bambino.
Cosa c’era di meraviglioso in quel gioco insulso di andare su e giù? Pensò che la meraviglia doveva stare nel farlo con qualcuno a fianco… Chissà se gli antichi bambini ridevano o piangevano sulla ruota. Se qualcuno cadeva. Se le ragazze fingevano paura per farsi abbracciare.
Zucker provò una sensazione che non riconosceva. Se avesse domandato, la guida avrebbe risposto imperturbabile: «Gli antichi cantastorie ne sapevano il nome: l’avrebbero chiamata nostalgia».

 

3° classificato: “Nuyileq” di Lina Ray

100 parole per descrivere la neve e nessuna per descrivere l’ansia. Il futuro che in tanti temono e già qui, ma c’è chi resiste e non si arrende. L’ottava meraviglia è la forma tangibile di questa resistenza, l’idolo totemico a cui sacrifichiamo speranze e sogni. La divinità che sorride materna al nostro ridicolo tentativo di sopravvivere.

Intervista alla Terza Classificata del contest di giugno: Lina Ray 

L’abbiamo ribattezzata la Nostra Breve Penna Felice “Nordica”.
Lina Ray è alla sua seconda partecipazione ai nostri concorsi ed entrambe le volte ci ha tenuto attaccati al foglio con due storie ambientate tra i ghiacci del Polo Nord, la neve un osservatore silente, un Dio Natura che fa da alter ego alla Provvidenza letteraria dei Malavoglia.
I suoi due racconti sono finiti tra i finalisti in entrambi i concorsi, perché ti incollano con dei dialoghi da manuale e il presagio vero protagonista tra le righe.
Devi arrivare alla fine, devi trattenere il fiato, non perché hai paura o perché Lina giochi con i meccanismi del thriller, tutt’altro, ma perché senti che finirà bene; te lo sussurra quasi la neve trasfigurata nel bianco del foglio.
“Sono l’unico caso in cui lo svedese di turno in vacanza in Romagna non è rimasto in Italia. Sono partita io migrando al freddo… E ho scoperto che adoro la neve, adoro l’orizzonte bianco che appuntisce la vista, il silenzio che rimbomba in testa, gli spazi aperti, la sensazione che siamo un granello di sabbia nelle mani di madre natura.”.
Lina vive a Jokkmokk, lungo la linea che sul mappamondo segna l’inizio del Circolo Polare Artico.
“Ho fatto amicizia con diversi figli di rifugiati Sami, una tribù indigena di origine norvegese che dopo la Seconda Guerra Mondiale si è insediata nel nord della Svezia e che noi chiamiamo erroneamente Lapponi. Hanno la loro storia, la loro lingua, la loro cultura e un modo di vivere in simbiosi con la natura e i suoi cicli che ha rivoluzionato il mio modo di vedere le cose…”.
E anche di passare il suo tempo libero.
Lina era solita divorare libri sotto al plaid per scacciare i brutti pensieri, ora ha deciso di riprendere in mano una vecchia passione giovanile: la scrittura.
“Vi ho trovato su Facebook, per puro caso. Non sono molto social, ma a volte mi aiuta a mantenere i contatti con gli amici italiani. Ho visto il quadro-traccia di aprile e mi è subito venuta in mente quella storia surreale di un bouquet sopravvissuto alla Prima Glaciazione. Nuyilek, invece, è frutto delle letture che sto facendo adesso…”.
Lina non è più fidanzata con lo svedese che le ha rapito il cuore in Romagna, da molto tempo, ma è rimasta comunque in Svezia, tra renne, macchine che non ripartono per il gelo e tre maglioni uno sopra l’altro per affrontare il freddo. Gestisce un piccolo motel che si riempie in inverno, in occasione del festival Sami, e non soffre più di ansia.
“Da ragazza adoravo scrivere e la mia professoressa di italiano mi diceva che ero portata. Ma non ho mai fatto corsi o scritto qualcosa di ambizioso. Anzi, credo di trovarmi bene qui perché non sono ambiziosa in nulla, neppure nelle mie passioni. La cosa più ambiziosa che ho fatto è far costruire quell’ottava meraviglia di ghiaccio a Panuk… Una notte ho sognato una scultura di ghiaccio imponente che urtavo slittando con la macchina e ho pensato fosse un segno. Così ho partecipato di nuovo e mi è andata bene.”.
Come a Panuk, aggiungiamo noi, e Lina ride riempiendo il monitor della nostra video chiamata.
Non può restare a lungo: ha le camere da rifare e deve far riparare alcune luci esterne; ma fa in tempo a dirci che le è piaciuto “Il Mariachi” di Salvo Amadori.
“È scritto benissimo e parla di un dono speciale che fa la natura all’uomo. A volte penso a quanti regali del genere ci perdiamo per strada solo perché non sono incartati e infiocchettati convenzionalmente. Se potessi avere una qualità dei miei protagonisti vorrei avere la vista di Panuk, quella che mette a fuoco tutto, il passato, il presente e il futuro e ti aiuta a vedere il filo che li unisce.”.

 

“Nuyileq” di Lina Ray
Panuk fissò l’orizzonte. Il giornalista vedeva solo bianco tutto intorno a sé, mentre i suoi occhi allenati sapevano distinguere i dettagli: una volpe bianca, un arbusto ricoperto di neve, una lastra di ghiaccio che stava per sciogliersi in acqua.
“Quindi è vero che voi Inuit avete ben 100 parole per descrivere la neve ma nemmeno un termine per indicare l’ansia?”
“I popoli danno il nome a ciò che conoscono, dalla notte dei tempi. Noi Inuit non sappiamo cosa sia l’ansia, conosciamo solo la paura.”
“E, mi scusi, quale differenza ci sarebbe?”
“Me lo dovrebbe dire lei…”
Panuk era uno dei discenti di Arujik, il capostipite degli Inuit nella terra di Avanersuaq, il punto più a nord del mondo ancora popolato. Non si considerava un Groenlandese, era figlio dei ghiacci.
“Un Inuit non ha paura di qualcosa che ancora non è accaduto, non vive così. Noi Inuit temiamo una tempesta di neve che ci coglie mentre siamo a caccia, un orso che ha fame che ci si para davanti, le lastre di ghiaccio a primavera, quando scricchiolano sotto i nostri piedi… “
“Ha figli Panuk?”
“Sì, due.”
“Non prova paura quando non li vede rincasare alla solita ora?”
“No. Esco a cercarli.”
Panuk era diventato una celebrità tra gli Eschimesi perché aveva rifiutato di trasferirsi più a sud, assieme al resto del suo villaggio, quando una delegazione di scienziati aveva pronosticato lo scioglimento dei ghiacci e il conseguente sprofondamento dell’intera terra di Avanersuaq nel mare Artico.
Era rimasto in casa sua assieme alla sua famiglia e aveva progettato di costruire un’enorme statua di ghiaccio, visibile dai satelliti, per confutare le teorie catastrofiste sul global warming.
Inuit da ogni parte del mondo, dal Canada, dall’Alaska, dal resto della Groenlandia, erano giunti in suo aiuto per iniziare la costruzione.
“Quando pensa di terminare il lavoro?”
“Non lo so. La cosa che so è che la mia statua non si scioglierà mai.”
Il giornalista lo guardò con aria di scherno, come si guarda un avversario che perde, ma lui non aveva gli occhi allenati alla vita di Panuk, non sapeva che non erano avversari, che tutto il mondo avrebbe dovuto tifare per la sua statua.
Ci vollero 4 mesi per intagliarla in un grosso masso di ghiaccio perenne, il Nuyileq, alto un centinaio di metri e spesso quanto un palazzo in cemento armato. 
In più di 500 si calarono su e giù con ramponi e corde doppie per settimane, ognuno con il compito di scalpellare un dettaglio. A primavera giunse perfino un famoso scultore siberiano ad aiutarli con la parte più difficile: la base. Ogni picconata poteva essere letale per l’equilibrio della struttura.
A maggio la grande statua era ultimata: una cattedrale di ghiaccio e riverberi che disegnava prismi arcobaleno nell’aria e negli sguardi.
Tornò il giornalista, con una troupe televisiva al seguito.
“Chi rappresenta? Una foca antropomorfa?”
Panuk sorrise.
“Voi continentali dovete ricondurre tutto all’uomo e non capite che invece tutto va ricondotto allo spirito, a ciò che alberga dentro alle cose. Lei è Sedna, per noi Inuit è la dea madre, è lo spirito buono che alberga dentro alla natura.”
“Se non si dovesse sciogliere potrebbe diventare una meta turistica, lo sa? Potrebbe guadagnarci molti soldi.”
“Sedna non si scioglierà mai, gliel’ho già detto, e non è mia… Sa qual è un’altra parola che manca nel dizionario Inuit? Possesso. Non ci serve possedere, ci serve condividere e Sedna adesso è di tutto il mondo.”
Giunsero milioni di persone da ogni parte del mondo a rimirarla, fu girato un documentario e molte riviste la ribattezzarono la nuova Petra di ghiaccio.
Il villaggio di Panuk si ripopolò, venne un inverno freddissimo e un’estate caldissima e poi un inverno ancora più freddo e un’estate torrida, ma la Grande Sedna di Ghiaccio sembrava non accorgersene.
Panuk uscì dal suo igloo e l’ammirò all’alba; un lungo rigagnolo di acqua colava dal volto.
Afferrò i ramponi, le corde e un secchio pieno di neve, intenzionato a scalare la sua statua e ad interrompere lo scioglimento, ma arrivato a 100 metri di distanza si accorse che il rigagnolo si era arrestato da solo: adesso sul volto di Sedna compariva un sorriso accennato, un sorriso materno. 
Arujik aveva ragione: “Quando hai un dubbio, domanda alla natura e lei ti risponderà. Sempre”.

 

MENZIONI D’ONORE GIUGNO 2021

Anche la redazione ha avuto qualche dubbio esistenziale al momento delle menzioni. “Premiamo più la storia che la tecnica o viceversa?”. Alla fine abbiamo optato per quei racconti che sono rimasti in equilibrio tra trama e stile con più disinvoltura.

“Roger” di Amadeus 70

L’irriverenza di un meta-racconto-lampo non poteva non essere premiata! Amadeus 70 si è preso gioco di redazione, giudice, se stesso e lettori con tecnica, stile e verve ineccepibili. Dio salvi Roger Federer!

“Meraviglie nello sguardo” di Mariposa

Il ricordo fertile di una nonna speciale fattosi racconto; l’andamento ciclico dei legami di sangue in un’istantanea dell’anima di 300 parole. 

 

 

“Moscow Mule” di Sammy P.

L’epopea di un cocktail alla base dell’ottava meraviglia del mondo non poteva passare inosservata a BSF. L’abilità di una narrativa tonda neppure. Cincin Sammy P.!  

 

 

GIURIA POPOLARE di GIUGNO 2021

 

Questo mese i racconti hanno gareggiato fino all’ultimo sospiro, con “’A menza ca panna” (42 like) di Anna Maria Maffezzoli che ha avuto la meglio nel rush finale su “Meraviglie nello sguardo” (33) di Mariposa. Subito dietro, di un’unghia di voti, “L’ottava Meraviglia” di Luisa Di Toma e “Ai confini del mondo” di Enrico Grossi. Dietro, di una decina di voti, 5 racconti “inseguitori”, a riprova che state diventando sempre più bravi e sempre più godibili. Alla fine “la brioscia siciliana” è come l’amore: vince su tutto, perfino sul ricordo fertile di una nonna speciale, sull’incanto rosato del Duomo di Milano e sul fascino ancestrale delle Colonne d’Ercole.

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La partecipazione richiede un pagamento di 10€ e la registrazione al sito, che la prima volta avverrà in fase di checkout.

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