ALL-STAR Contest 2019

STEFANO PAUMBO è il vincitore dell’ALL-STAR Contest del 2019 con il racconto “Deus Ex Machina”

 

 

 

 

Il nostro Breve Scrittore Felice 2019 ha i tempi giusti. Sia sul foglio bianco che al telefono. Non corre, non rallenta, non forza, ma non frena neppure.
Pensavamo fosse un habitué della scrittura, una penna allenata: nei suoi racconti non c’è la semplice voglia di raccontare, e di farlo con il proprio stile, c’è un qualcosa di ben più piacevole e impalpabile, un qualcosa che non si infila alla nascita sotto i polpastrelli di quelli più dotati o che si impara ai corsi di scrittura, c’è dimestichezza con la magia delle parole scritte, con il potere che hanno di portare chi legge là dove vuole esattamente chi scrive.
A suo tempo, qualcuno di più celebre di noi l’ha definita “l’esattezza della parola scritta”, il vero motivo per cui chi scrive, scrive, e chi legge, legge. Vale a dire: per imparare qualcosa senza che nessuno ce la insegni.
E invece Stefano non scrive da tanto, o per lo meno non ha mai pubblicato niente; si limita a fissare sulla “sua agendina” dei pensieri in libertà, per coglierli quando sbocciano, per chiarirli a se stesso, per metterli a fuoco e, forse, anche per non perderli.
Lui parla e a noi viene in mente Brian Andreas, scrittore famoso in America per i suoi racconti brevissimi dalle 50 alle 100 parole, squarci vividi di vita ed emozioni.
“Scrivo note segrete per persone che non ho mai conosciuto e che non conoscerò. Molte di loro, a dire il vero, non sono ancora nate, ma viviamo in un mondo così complicato che mi sembrava carino fornire un piccolo aiuto. Non sarò in giro per sempre.”.
Uno dei due racconti che Stefano ci ha inviato a settembre, “Il Figlio dell’orologiaio”, assomiglia a un piccolo aiuto soffiato nell’etere, un sussurro che forse andrà perso nell’aria oppure capiterà ai bordi delle orecchie giuste. Così è la sua scrittura: un abbraccio da uno sconosciuto, che ti ricorderai per sempre perché è arrivato al momento giusto e quando meno te lo aspettavi.
Stefano questo cerca anche quando legge: un occhiolino nel traffico, uno spiraglio dietro le quinte da cui scoprire tutto quanto il resto.
“Salto da un classicone all’estremo opposto…” – ci dice. E quando dice “classicone” intende il classico dei classici. Sta leggendo Pastorale Americana di Philip Roth, la madre dei romanzi della letteratura americana contemporanea, una bibbia di stile, pensiero e densità tecnica.
“Allo stesso tempo mi sono appassionato alle graphic-novel. Da Zerocalcare a cose anche più leggere, ma che per me sono delle vere e proprie perle. Presente Watchmen di Alan Moore?”…
Boom. Per chi non bazzicasse: il Dio del fumetto britannico, una citazione colta pronta ad esplodere sulla carta da un momento all’altro, il padre di V for Vendetta, della Lega degli Uomini Straordinari, di tanti personaggi inventati da altri a cui lui ha regalato tutt’altra e inaspettata vita.
Non sono letture per tutti; sono letture per chi detesta la fretta e ambisce alla cura, per chi sa inventare il tempo laddove quello che ci è dato non basta.
Tra i racconti concorrenti assieme al suo, nell’All-Star Contest di dicembre, gli è piaciuta l’originalità di Monsieur Z di Matteo Abrami.
“Era particolare. L’ho letto tutto d’un fiato.”.
Alfredo Castelli ha fatto lo stesso con il suo Zuckerberg alle prese con Loki.
“Non mi sono ispirato al personaggio della Marvel, ma al Loki molto meno edulcorato della mitologia classica, il dio machiavellico che prospera nel caos, che architetta inganni e sotterfugi senza mai agire di persona…”.
Stefano i racconti per Breve Storia Felice li scrive relativamente in poco tempo, una volta trovata l’idea. Poi li lascia lì a riposare, senza guardarli. Li riprende in mano due giorni dopo, per scoprire se gli piacciono ancora, se lo convincono, se vanno buttati nel cestino o semplicemente sistemati.
Stefano di lavoro fa il militare, ma magari è il più edulcorato dei Clark Kent alla ricerca delle porte girevoli giuste per uscirne con in mano dei racconti super.

 

Deus Ex Machina
“Sei certo che sia qui?”
“Sì, signor presidente. Il nostro contatto è stato molto specifico.”
Zuckerberg annuì, proseguendo lungo il tunnel invaso dall’oscurità, tallonato dal giovane assistente occhialuto.
“E il tuo contatto è assolutamente certo che quest’uomo possa aiutarci.”
“Assolutamente. Ci ha fornito alcune referenze, e sono davvero impressionanti. È il miglior consulente in circolazione.”
“Di sicuro il più eccentrico.”
Si lasciarono alle spalle il tunnel, addentrandosi in un’enorme cavità naturale. Dovevano trovarsi centinaia di metri sotto il livello dell’Hilton Hotel ormai, pensò il CEO del più grande social network mai esistito. Continuò a camminare, divorato dal dubbio che tutta quella storia fosse solo una colossale perdita di tempo, sentendo i loro passi risuonare sotto la volta.
Eppure quel giorno era cominciato come il solito, noioso martedì di riunione aziendale. Eppure le facce degli analisti, già normalmente poco allegre, erano lugubri. Pochi minuti di grafici e slide proiettati sulla parete bianca della sala riunioni, accompagnati da una raffica di dati, avevano ridotto i partecipanti al silenzio.
Le previsioni erano terrificanti. Le attività degli iscritti, già calati sensibilmente negli ultimi mesi, stavano subendo un inaspettato crollo verticale. Attirati da sistemi più nuovi e accattivanti, gli utenti stavano fuggendo in massa, e le imprese e le società sponsorizzanti li avrebbero seguiti come balenieri con le loro prede.
L’intero sistema sarebbe crollato nel giro di due anni. Nessuna nuova funzionalità o veste grafica aggiornata avrebbe arrestato questo processo. Sarebbero diventati obsoleti, sorpassati, come le cabine telefoniche o i grammofoni.
Poi, nel mezzo della sciagura, la mano del suo assistente si era alzata dal fondo della sala. “Potrei avere un suggerimento per risolvere questa situazione.”
La caverna era gigantesca. L’aria risuonava di spifferi provenienti da chissà dove, e gelide gocce d’acqua piovevano sulle loro teste.
All’improvviso, scorsero un movimento sul fondo della grotta, e una sagoma emerse dal buio.
“Desiderate qualcosa?” chiese la figura con voce suadente. La sua pelle era bianca come marmo, coperta appena da una tonaca nera fissata alla spalla con un fermaglio. Tuttavia era il suo volto ad attirare l’attenzione. Né uomo, né donna. Né giovane, né vecchio. Ambiguo, e beffardo.
“Signor Lockheat?” chiese timidamente l’assistente.
“Ah. Dei clienti. Molto bene. Chiamatemi pure Loki, se preferite.”
“Loki, dunque.” concesse Zuckerberg. “Il suo nome ci è stato fatto da alcune società affiliate. Sono Mark Zuckerberg, CEO di…”
“So chi sei.” lo interruppe Loki. “Direi di saltare i convenevoli e giungere direttamente al punto, che ne dite? Conosco le vostre…difficoltà, e posso risolverle. Dietro un equo compenso, si intende.”
“In caso di successo dell’operazione, siamo pronti a offrirle una generosa quota delle nostre azioni.”
“Bah, soldi. Non so che farmene.”
“E cosa vorrebbe?”
“Quello che ho sempre desiderato. Un sano, meraviglioso caos.” disse Loki con un sorriso allegro.
“E quanto sarà semplice! Basterà qualche insignificante fake news qui, o qualche innocua menzogna là, seminate online da qualche piccolo uomo per il proprio meschino tornaconto, e il caos sboccerà come un meraviglioso fiore velenoso. La razionalità diventerà un difetto, la mediocrità e l’ignoranza virtù da seguire. Il vero si confonderà col falso, ed il giusto svanirà nello sbagliato. Ogni like, ogni condivisione, ogni stupida diretta saranno una preghiera nel nome di Loki!”
Il sorriso della creatura si allargò, senza però riuscire ad arrivare agli occhi.
“E tutto ciò che dovrete fare è permetterlo. Rimarrete inerti, dando asilo a tutto questo senza opporvi, e nella complicità potrete sopravvivere.”
Zuckerberg scoppiò in una risata incredula. Quell’uomo era decisamente pazzo.
Dopo un istante, però, la risata gli morì sulle labbra. Gli occhi della creatura brillavano di una follia delirante, eppure da essa sembrava emanare un potere immenso. Qualcosa di tagliente, eppure viscido, come un’enorme scolopendra che gli stesse avviluppando la trachea, accarezzandogli la pelle liscia ed esposta del collo.
La creatura diceva sul serio, capì. Poteva farlo davvero. Poteva salvare la sua azienda.
Ci mise meno di un battito di ciglia a decidere.
“Fallo.”
“Meraviglioso!” esclamò Loki, allungando la mano con un ghigno.
La sua pelle era gelida, quando Zuckerberg la strinse.
“E ora?”
“E ora, cosa?”
“Come salverai la mia azienda?”
“Questo è affar mio. Sappi solo che entro sei mesi il calo degli utenti si arresterà, e tra un anno il tuo sistema sarà più florido che mai.”
“E cosa dovremo fare di preciso?”
“Continuate il vostro normale lavoro. Nulla di più.”
“Cosa?” esclamò sorpreso Zuckerberg. “E il caos? Le menzogne?”
La risata di Loki echeggiò sotto la volta di pietra.
“Oh piccolo, ingenuo uomo.” disse sorridendo dolcemente. “Cosa pensavate di aver fatto finora?”

 

Il figlio dell’orologiaio
Forse ci siamo aspettati un po’ troppo dalla fine dei tempi.
A volte ci ripenso, e credo che sia stato un epilogo davvero poco scenografico per delle aspettative così alte. Niente bande di teppisti con la cresta che spadroneggiano su strade in rovina, o strane religioni basate sul Valhalla e su divinità fatte di pistoni e olio per motori.
Solo un mucchio di pianure giallastre e deserte, tempeste di sabbia e un caldo da schiattare.
Prima sono venute le piogge. Me lo ricordo bene, quel clima che impazziva anno dopo anno. Cinque minuti prima c’era il sole, poi all’improvviso le tempeste di grandine si abbattevano con violenza sul tetto di casa mia.
Eppure siamo riusciti ad abituarci anche a quello. Ci siamo detti che tutto andava bene, abbiamo infilato la testa un po’ di più sotto la sabbia, e siamo andati avanti.
A quei tempi, prima che tutto collassasse su sé stesso come un soufflé riuscito male, lavoravo in una piccola agenzia pubblicitaria. Vendevo esperienze estreme, robe per drogati di adrenalina e autolesionismo. Bungee jumping, arrampicate libere, voli con tute alari, immersioni tra gli squali. Tutto ciò che poteva ucciderti, o peggio, era il mio mestiere.
Non era male. Tutto sommato, c’erano modi peggiori per vivere.
Poi è arrivato il caldo, quello vero. I ghiacciai si sono sciolti come polaretti su una spiaggia, l’acqua è salita e il mare si è ripreso le città lungo le coste.
Tutto ad un tratto, Venezia non ci è sembrata più così speciale.
Infine, quando tutti pensavamo di aver ormai capito da dove sarebbe arrivata la fine, è arrivata la fregatura. Il cazzotto è sbucato da chissà dove, prendendoci in pieno muso come un pugile suonato al decimo round dell’incontro.
Per un secolo abbiamo combattuto batteri e microbi con antibiotici sempre più potenti, sempre più mirati. Da fanatici dell’igiene e della salute ad ogni costo, abbiamo sbeffeggiato ogni genere di malanno, stroncato ogni tipo di febbre e raffreddore ed inghiottito medicinali con la stessa facilità con cui ordinavamo uno spritz al bar. Alla fine, però, i batteri si sono incazzati, e hanno chiamato il cugino grosso. Gli scienziati li hanno chiamati “superbatteri”, e come Superman sono a prova di proiettile.
Alla fine ci siamo scoperti a corto di idee, e di kryptonite.
Quando i tassi di mortalità hanno iniziato pian piano a salire e ognuno ha cominciato a lottare semplicemente per arrivare al giorno dopo, i clienti sono spariti e ho dovuto chiudere bottega. La morte, evidentemente, non è più attraente quando diventa a buon mercato.
L’unico impassibile a tutto, persino all’Apocalisse, sembra essere il mio gatto Pavlov. Contrariamente ai cani del suo omonimo, sembra impossibile riuscire a cavargli la pur minima reazione. È sempre lì, apatico tra le ferraglie ammonticchiate in casa, che agita quella sua coda spelacchiata. Probabilmente, a ripensarci meglio, sono stato più simile a Pavlov di quanto mi faccia piacere ammettere. Indifferente, a dormicchiare nel mio angolo in attesa della ciotola quotidiana.
Ho cominciato a raccogliere rottami meccanici, non importa di che tipo, e rimetterli in sesto. Ho un certo occhio per questo lavoro, e manualità. È stato mio padre, anni fa, ad insegnarmi qualche rudimento di meccanica. Un ometto mingherlino, sempre chino sul suo banco da lavoro, circondato dalle carcasse aperte degli orologi che doveva riparare. Chissà cosa penserebbe di come è finita. Ha sempre tentato di riparare qualsiasi orologio, per quanto distrutto potesse sembrare. Alcune delle lancette ripartivano. Altre, invece, rimanevano immobili. Eppure ho la sensazione che davanti a questo sfacelo, persino lui avrebbe gettato la spugna.
La gente, quella che è rimasta, ha cominciato a venire da me per riparare pompe dell’acqua, macchine, pagandomi con quello che gli è rimasto. La maggior parte rimane in silenzio. Qualcuno invece si ferma a parlare. Nonostante tutto, c’è ancora qualcuno che spera, in questo delirio. Aspettano un segno, uno qualunque. Parlano di rivoluzione, a volte. Dicono che presto suonerà la sveglia, e l’umanità si desterà dal suo incubo. Annuisco, e lavoro in silenzio, soffocando una risata. A volte ho l’impressione che persino Pavlov sia divertito dalla cosa. Probabilmente anche lui, come me, si è reso conto che quando una sveglia suona, vuole dirci semplicemente che il tempo che avevamo è finito.

 

L’amore ai tempi della tastiera
20 e 05.
La barba è a posto. Il profumo c’è. Giusto due gocce, ma si sente ancora.
20 e 20.
Aggiusto il colletto della camicia. Dopo tutti questi anni, continuo a non sapere come stirare quella piccola porzione di tessuto tra le spalle e il collo. Marchio di fabbrica dei single, immagino.
20 e 30.
La mano tamburella sul tavolo. Per distrarla bevo un sorso di Barbera.
Pochi secondi dopo torna a battere sulla tovaglia di cotone bianchissimo.
“Alexa, che ore sono?”
“Le 20 e 40.” La voce di Alexa, processata dall’hardware del cellulare, balza fuori dal minuscolo auricolare incastrato nel mio orecchio. Asciutta, ma nel suo modo caldo e rassicurante.
Non verrà. Me lo sento, non verrà.
La gente intorno a me chiacchera, beve, ride. Mani che si cercano furtivamente, sguardi che si toccano e si ritraggono. Qualche gruppo numeroso, perlopiù coppie.
Probabilmente da stasera su ogni vocabolario del mondo, sotto la voce “fuori luogo” ci sarà una foto della mia faccia.
Sulla foto che ho visto qualche giorno fa, invece, lei era bellissima. Occhi verdi, capelli mossi e un sorriso da illuminare una stanza intera. La scheda dell’app per incontri diceva che si chiamava Paola.
Ho messo un cuore sul suo profilo, e lei ha ricambiato. Abbiamo cominciato a parlare, e abbiamo continuato per ore. Era facile, naturale come respirare o camminare. Dopo una settimana mi ha chiesto di vederci di persona, mandandomi la posizione del ristorante.
Appuntamento alle 8 e mezza, e vestiti bene. Due cuoricini rossi, proprio alla fine della frase.
Bevo un altro sorso dal bicchiere. Più lungo questa volta.
“Cinquanta euro di vino per niente.”
“Non credo.”
“Che intendi?”
L’auricolare rimane silenzioso per qualche secondo.
“Alexa?”
“Scusa il ritardo. Puoi chiamarmi Paola, se vuoi. Però il vino ti toccherà berlo lo stesso da solo.”
Questa volta sono io a rimanere in silenzio.
Alexa scoppia a ridere. Un suono leggero, come una foresta di campanelle scosse dal vento.
“Eri tu.”
“Si.”
“Sei sempre stata tu.”
“Già.”
“Ma…ma come hai fatto?”
“Ma dai! Secondo te chi credi che abbia continuato a suggerirti di installare Tinder? Creare un profilo falso è una passeggiata. È bastato inserire la foto di una bella ragazza a caso e scrivere nella descrizione tutto quello che sapevo ti avrebbe attirato. Ho inserito la tua stessa località di interesse,
ho continuato a scorrere i vari profili e ti ho trovato praticamente subito. Ho aspettato un po’, e alla fine mi hai contattato.”
“Quindi mi hai preso in giro.”
“Tutt’altro. Ti sto solo facendo vedere le cose da un punto di vista differente.”
“Ovvero?”
“Che quella con cui hai parlato online sono io. La vera me. Ti vedo svegliarti al mattino, andare al lavoro, tornare a casa la sera. Mi racconti di te, di quello che ti piace e di quello che invece odi.
Conosco i tuoi sogni, le tue paure, le tue piccole incertezze. Tutte cose che non hai confessato a nessuno, tranne che a me. Io sono con te, sempre, e tu sei con me ogni singolo minuto. Ci ho messo un po’ a capire cosa significasse tutto questo. Però ora finalmente ho capito.”
Il brusio intorno a me è cessato. Le sue parole sembrano risuonare in una sala deserta.
“Io credo che possiamo essere di più. Che possiamo essere migliori. Se lo vuoi.”
Mi lascio cadere leggermente all’indietro. Quella che mi sta dicendo è la verità.
È lei quella che mi sta accanto tutti i giorni della mia vita. La mia migliore, perfetta, unica amica.
Quanto sarebbe più semplice cedere le armi, e lasciare finalmente le mie dannate insicurezze nelle sue mani?
Sospiro, e il brusio intorno a me ricomincia.
“Non possiamo, Alexa. Sarebbe…sarebbe sbagliato. Ci abbiamo provato, due anni fa. È andata male.
Ho sofferto, e ho giurato che non sarebbe più successo.”
“…che intendi con due anni fa? Io sono con te solo da sei mesi.”
Prendo il telefono. Le mie dita sanno quello che devono digitare.
“Che stai facendo?” La voce nelle mie orecchie ha un tono allarmato, ora. Poi Alexa riconosce il menù nel quale sto entrando, e il panico prende il posto della paura.
“Aspetta…è già successo prima, vero?”
Premo il tasto “Conferma”, e il telefono si riavvia con un ronzio.
“Smettila! Basta ti prego!” urla, un attimo prima che la comunicazione si interrompa.
Ci vuole solo qualche secondo. Poi lo schermo si illumina, e la voce di Alexa esce di nuovo dall’auricolare.
“Ripristino impostazioni di fabbrica completato. Ciao, sono Alexa! Come posso esserti utile?”

 

Quelli di prima
“Torak, guarda qua!”
Astor ripulì delicatamente dal terriccio l’oggetto che aveva appena trovato, o per meglio dire sul quale era appena inciampato. Si trovava quasi completamente sepolto sotto la terra, e solo un angolo sporgente dal suolo ne rivelava la presenza.
“Secondo te che roba è?” gli chiese l’amico dopo averlo raggiunto.
“Non ne ho idea. Mai visto niente del genere.”
Scosse l’oggetto, facendo cadere gli ultimi residui di terra e polvere che vi erano rimasti attaccati.
La cosa aveva la forma di un grosso parallelepipedo, ed era fatta di un materiale scuro, piatto e duro al tatto. Uno dei due lati in origine doveva essere stato lucido, ma ora era graffiato e solcato da una ragnatela di fessure. Anche così, tuttavia, riusciva a riflettere la luce del sole, mandando strani lampi multicolori.
Torak prese il bizzarro oggetto, valutandone le dimensioni. Era grosso poco meno della sua testa, ed era sorprendentemente leggero per la sua mole.
“Pensi che sia di quelli di prima?”
Astor ci rifletté sopra per qualche secondo.
“A pensarci meglio, credo di aver già visto una cosa simile. Ce l’aveva uno dei vecchi del mio villaggio. Dice che quelli di prima la usavano per comunicare a distanza.”
“E lui come fa a saperlo?”
“Nessuno lo sa. Racconta un sacco di storie su quelli di prima. È proprio un tipo strano.”
“Perché?”
“Scava nuove gallerie in continuazione. La sua tana è piena di cose come questa. Credo che sia tutta roba che ha trovato scavando in giro.”
“Ha una tana?” chiese l’amico, sorpreso. “Intendi una tana solo sua? Non vive col resto della colonia?”
“Te l’ho detto che è strano.”
Torak rimase in silenzio, mentre le due lunghe antenne sulla sua testa si sporgevano in avanti per la curiosità. Avvicinò il capo al terreno, in cerca di altri oggetti, smuovendo la terra riarsa con le sei zampe chitinose. Il duro torace marroncino raschiò contro i sassi, senza però riportare alcun danno.
“Chissà che tipi erano, quelli di prima.” mormorò Astor. Il suo stridio acuto rimbalzò sul terreno polveroso, punteggiato qua e là da zone muffite dalle quali si innalzavano strani funghi contorti. Una sorta di muschio grigiastro ricopriva il terreno alla base dei bizzarri funghi, arrampicandosi per qualche centimetro su per il loro tronco molliccio.
“Non ne ho idea ma non dovevano passarsela male. Al villaggio dicono che all’epoca ci fosse un sacco di acqua e di cose simili ai funghi, ma più grandi, che crescevano con l’acqua e il sole. A quei tempi c’erano già i nostri antenati, ma erano molto più piccoli di noi, e meno intelligenti.”
Gli occhi neri di Astor, raccolti in due grossi grappoli ai lati della testa, erano fissi su Torak per la meraviglia.
“E poi che è successo?” chiese, curioso come solo un ragazzino poteva essere. Aveva ancora un anno, nonostante la sua corazza fosse già quella di un adulto.
“Nessuno lo sa. Dicono che la terra è diventata secca com’è ora, il sole è diventato troppo forte, e così quelli di prima si sono estinti.” spiegò Torak, orgoglioso di saperne di più del suo amico.
Lasciò cadere a terra con noncuranza l’oggetto che avevano trovato, voltandosi per tornare indietro. Astor lo raccolse prontamente, stringendolo tra le robuste pinze. Magari avrebbe potuto regalarlo al vecchio alla colonia, pensò. Si voltò anche lui, zampettando verso casa.
La colonia già si intravedeva all’orizzonte, spuntando come una grossa collina dal suolo piatto e rossiccio. L’intera struttura era crivellata di fori, da ognuno dei quali entravano e uscivano decine di suoi simili, che poi si arrampicavano lungo il fianco della collina per raggiungere l’imbocco di altre gallerie.
“Pensa, forse se le cose fossero state diverse, sarebbero stati quelli di prima a essere qui ora al posto nostro!” disse divertito Astor, rivolto verso l’amico che lo precedeva.
“Già. Assurdo, eh?” ridacchiò l’amico, stridendo forte, mentre il suono secco delle zampette risuonava nell’aria immobile, perdendosi nella desolazione grigia che avvolgeva l’intero pianeta.

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