giugno 2022
Podio del Contest di giugno 2022
Questo mese affrontiamo un genere che al momento va per la maggiore: la commedia nera o “dramedy”, un mix narrativo tra il dramma e la commedia.
Il funerale…
Attenzione: non si tratta di un semplice racconto breve che tratti l’argomento o si inneschi da un funerale, l’elemento chiave del contest di giugno è il genere letterario richiesto, ossia la commedia nera.
Il Giudice d’onore STEFANIA CREPALDI
Il giudice d’onore di questo mese è Stefania Crepaldi, editor di romanzi, consulente editoriale e autrice.
Ha scritto il manuale Lezioni di narrativa. Regole e tecniche per scrivere un romanzo (Dino Audino Editore, 2021) che è tra i manuali di scrittura più venduti su Amazon, e ha esordito nella narrativa con il romanzo Di morte e d’amore. La prima indagine di Fortunata, tanatoesteta, vincitore del Torneo letterario IoScrittore (edizione 2020). Ma non è tutto: dirige anche l’agenzia editoriale Editor Romanzi.
Come dire, Penne Felici: se volete essere letti da un professionista che sa stare da entrambi i lati del foglio, non potevamo darvi opportunità migliore!
La traccia di questo mese, che vi chiede un breve racconto “dramedy” a metà tra dramma e commedia, è un rimando voluto e sottile alla commedia gialla con cui ha esordito Stefania, capace di mischiare il rosa e il giallo e di dar vita ad una protagonista, Fortunata, che ti inchioda da subito e ti resta dentro anche dopo il punto finale.
A voi, Penne Felice, il divertimento di plasmare qualcuno che conquisti Stefania!
PODIO DI GIUGNO 2022
Stefania Crepaldi non ha esitato a scegliere il suo podio, e ci ha confessato di essersi divertita parecchio a leggervi. Una buona metà dei racconti concorrenti non erano vere e proprie “dramedy”, per cui il suo podio è stato scelto anche in base ad altre considerazioni.
Magari la dramedy non vi appartiene, magari la vostra voce sul foglio non si accorda bene con la commedia nera. Quando vi sfidiamo a uscire dalla vostra zona di conforto tecnico, lo facciamo per espandere la vostra scrittura, per spingervi a sperimentare, a non accoccolarvi in gesti che vi vengono naturali o che avete ormai consolidato sotto le dita.
Credeteci. Scrivere è un percorso, non è un punto d’arrivo, e il meglio che vi possa capitare lungo la strada è imbattervi in una difficoltà tecnica, in un genere letterario, un argomento, un’emozione che non sapete come rendere su carta ma che provate comunque a “conquistare letterariamente”.
Non lo si capisce subito, ma col tempo le salite tecniche si affrontano con più elasticità creativa, con un fiato scrittorio che vi porta a stupirvi di voi stessi e vi consente di puntare alla vetta dell’esattezza letteraria.
Ma bando alle ciance; a voi, nostre indomite penne felici, il podio del nostro giudice d’onore Stefana Crepaldi.
1° classificato: “Vibrazioni” di Giovanna Adelaide Busacca
L’unico racconto davvero in grado di strappare una risata finale con un vibrante colpo di scena. Bravissima alla scrittrice, che è riuscita a ricreare delle ottime descrizioni per definire il mondo narrativo in cui viveva la defunta e ottima l’aggiunta del dettaglio finale, che toglie la sensazione di mestizia e aggiunge quel tocco di colore perfettamente in linea con il genere commedia nera.
Intervista alla nostra prima vincitrice, la Breve Scrittrice Felice di giugno: Giovanna Adelaide Busacca
Giovanna è una nostra vecchia conoscenza. Partecipa ai nostri concorsi più o meno da quando siamo nati.
È un’editor, una di quelle che vivono di, con e per le parole.
Pensare che all’apice del mondo visuale del 2022 ci sia ancora qualcuno capace di emozionarsi quanto lei per un testo privo di immagini, ci commuove e ci mette di buon umore.
“Come avete notato, era un po’ che non partecipavo a BSF, le ultime tracce non mi avevano fatto scattare nulla, finché… Cacchio!, mi buttate lì una sfida, e io alle sfide non so rinunciare. A maggior ragione se si tratta di una sfida con me stessa che fatico ad uscire dalla mia zona di comfort e mi sbrodolo sempre un po’ addosso.
Questa volta chiedevate qualcosa di “impossibile” e mi ci sono arrovellata per giorni!
Io – che son solita partire in quarta, scrivere come un’ossessa, rileggere, correggere, epurare, cambiare anche rotta, ma sempre mentre sono immersa in una storia – mi sono trovata “senza parole” perché non avevo una storia o, meglio, ne avevo un milione, ma o erano comedy o erano dramedy, unire i due generi, cambiare registro mi è parsa impresa titanica.
Pensavo, pensavo, pensavo, senza venirne a capo e senza scrivere una sola parola.
Una sera, dopo l’ennesimo scazzo con mia figlia e i suoi vestiti buttati ovunque e i suoi libri impilati in ogni dove e il suo fancazzismo per quanto riguarda l’andamento della casa, mentre minacciavo di ucciderla, ho scritto un racconto sull’argomento; il dramma lo potete immaginare, mentre la commedia doveva restare racchiusa nel finale, quando la donna gioiva pensando alla cella linda e ordinata che avrebbe occupato di lì a poco. Mia figlia, dopo averlo letto, ha detto che si sarebbe trasferita da suo padre; un’amica mi ha fatto notare che la commedia era minima rispetto al dramma e che era appena morta quella bimba uccisa dalla madre; insomma, pareva non essere la strada giusta. Ho archiviato il racconto e sono rimasta di nuovo senza storia e senza parole, ma non senza la voglia di provarci, di vincere quella parte di me che affermava di non essere in grado.
Arriviamo così alla sera della deadline… Sono le 23, ho messo a letto Madre e il suo femore malandato, sono risalita a casa mia, ho gridato contro Figlia chiedendo i miei spazi, ho acceso il computer e ho urlato: “Porca miseria ma come si fa? Un vibratore! Ecco come si fa! Un vibratore spiazza e almeno un sorriso lo strappa!”.
Figlia mi ha guardato come si osserva una demente e si è ritirata in camera sua. Ho cominciato a scrivere di getto, ho finito in una ventina di minuti, non ho riletto e ho inviato.
Ed è la seconda volta che vinco con un racconto di cui non sono soddisfatta. In questo caso, sento che, avendo trovato un minimo di idea, avrei potuto svolgerla meglio. L’ho riletto e trovo ci siano troppi aggettivi, avrei voluto aggiungere altro che rimandasse al titolo Vibrazioni, il finale poteva essere più incisivo…
Comunque sono contenta, soprattutto d’aver vinto me stessa!!!
Amo BSF anche per le interazioni che si possono creare tra gli autori. Quando partecipo, leggo tutti i racconti e spesso li commento, trovo che sia un bello scambio. Questo mese ho apprezzato Loredano Cafaro e la sua scrittura sempre piacevole; ho trovato il racconto di Marlo commovente e dolce, racconto di un’umanità che va tristemente svanendo; Il misantropo di Daria Effe ha toccato le mie corde “pro cani – odio gli umani”; Virginia Coral scrive sempre in modo impeccabile e non si può non apprezzarla; R.I.P. meritava di vincere (senza dubbio più di me); mi ha commosso e divertito anche Il giorno dopo (ancora una volta questa vicinanza discreta, questo esserci e capire senza invadere, quando gli umani sono umani!).
Non so che altro dire… credo anzi d’aver scritto troppo.
Grazie!”
“Vibrazioni” non è una dramedy tout court, e non tanto perché non mischia il dramma alla commedia, ma per il tono farsesco che regna su tutto quanto il racconto plasmandolo prima ancora di quanto non facciano i suoi protagonisti.
È un po’ Downton Abbey, un po’ Molière, scritto con tutta la maestria tecnica di Giovanna e il suo modo di processare la vita, con i suoi pieni e i suoi vuoti annessi.
Il suo più grande pregio è la simmetria stilistica e di contenuto. Non è voluta, è innata, e questo il lettore non lo capta perché sta attento, lo assorbe con quella ghiandola totalmente speculativa e umana che è responsabile dei nostri attimi di piacere.
Giovanna quando scrive è simmetrica, sul foglio, nell’andatura, nelle sfumature, nella trama; lei batte forte sulla tastiera e dall’altra parte esce una pasta narrativa che fa lavorare quella ghiandola in chi legge. Così, come per magia, i suoi personaggi, diventano veri, fallibili e indimenticabili, esattamente come quei qualcuno, nelle nostre vite, che anche solo per un attimo ci hanno fatto provare piacere.
“Vibrazioni” di Giovanna Adelaide Busacca
La bara, posta su appositi cavalletti, è aperta. L’aria è intrisa del profumo degli innumerevoli fiori che la circondano. Il locale della grande villa dove Donna Carlotta ha trascorso la maggior parte della sua esistenza, e che ora ne accoglie le spoglie e i numerosi visitatori, è l’immenso ingresso da cui si diparte la scalinata che conduce al piano superiore, laddove, nella camera ampia e soleggiata, nel letto a baldacchino finemente lavorato da un noto ebanista, il suo corpo è stato rinvenuto privo di vita dal maggiordomo Alfonso.
La mattina precedente Alfonso era entrato, dopo un discreto tocco delle nocche contro il legno della porta, reggendo il vassoio della colazione, pronto a servire a Donna Carlotta il consueto succo d’arancia rossa con due fette biscottate appena velate dal miele prodotto dalle api della tenuta.
Alla vista della signora che, a bocca spalancata e occhi sbarrati, giaceva riversa in diagonale sul letto, Alfonso aveva lanciato un grido degno di Farinelli; il vassoio era precipitato sul pavimento e il maggiordomo era corso a cercare l’aiuto della giovane cameriera Susanna.
– Presto corri, Donna Carlotta sta maleeeeee, credo sia morta! – aveva singhiozzato Alfonso trascinando Susanna verso la camera.
– Calmati Alfi, cerca d’essere uomo… se ti riesce.
Susanna, constatato che la signora era passata a miglior vita, si era occupata di tutto. Aveva dapprima chiamato il medico affinché stilasse il certificato, e a seguire aveva organizzato la cerimonia funebre, facendo allestire la camera ardente e avvertendo gli amici della defunta, ché di parenti in vita non era rimasto nessuno.
Donna Carlotta aveva ormai passato l’ottantina, viveva sola – se si esclude il personale di servizio – da quando era rimasta vedova del suo terzo marito, ma non aveva mai cessato di organizzare feste ed eventi mondani circondandosi dei numerosi amici che nei decenni si erano andati moltiplicando.
Ora le persone si affollano intorno alla sua bara piangendone, per quanto non prematura, la dipartita.
A turno prendono la parola. Ognuno ne decanta con voce vibrante le doti pur non scordando di enumerarne i difetti, poiché nei rapporti d’amicizia veri ci si accetta per quello che si è nel bene e nel male. Tutti sono affranti. In un angolo Gina, Bea e Domitilla si consolano a vicenda raccontandosi, tra un singhiozzo e l’altro, episodi della loro lunga amicizia.
Alfonso si sposta nel locale portando vassoi di vino, dolci, tisane. Cerca di tenersi a distanza dalla bara perché i morti gli hanno sempre fatto impressione.
D’improvviso, come per un errore di montaggio, la scena della mattina precedente si ripete: Alfonso lancia un acuto e lascia cadere a terra un vassoio carico di bicchieri. Tra il suo grido e il rumore di vetri infranti, non è subito chiaro cosa sia accaduto.
Il maggiordomo, pallido e sul punto di svenire, indica la bara senza riuscire a profferir parola.
Nel silenzio calato tra i presenti si ode un lieve ronzio, gli sguardi di tutti seguono quello sbarrato di Alfonso e, attoniti, vedono l’abito di Donna Carlotta muoversi come spinto da una leggera brezza.
Bea è la prima a riscuotersi, infila una mano nella bara e ne estrae un vibratore!
– Chi è stato? – urla mostrandolo a tutti.
Susanna impettita al fianco della cuoca gira appena il capo per sussurrarle: “Sono stata io. La signora mi diceva sempre che il suo dildo era il miglior amante che avesse mai avuto… e non ne ha avuti pochi in carne ed ossa. Seppellirli insieme mi sembrava giusto. Peccato mi sia scordata di togliere le pile”.
Tra gli astanti ora scorrono risate cristalline, sono per lo più di distinte signore che bisbigliano tra loro sbirciando verso gli uomini dei quali ben conoscono le prodezze trattandosi nella maggior parte dei casi dei loro consorti.
Donna Carlotta sembra aver sulle labbra un sorrisetto sardonico, o forse è solo l’aria serena di colei che s’è spenta all’acme del piacere.
2° classificata: “R.I.P” di Simonetta Corrado
Questo breve racconto mi ha colpito subito perché la scrittrice ha scelto di far parlare il defunto e di fargli ricostruire il momento della morte, analizzando i personaggi che potrebbero aver agito contro di lui e averne provocato la morte. Un tocco di originalità da cui ben emerge la caratterizzazione del narratore e protagonista, dettaglio difficile da far emergere in così poche righe.
Intervista alla Seconda Classificata del contest di giugno: Simonetta Corrado
“Non si infila la propria vita dentro alle storie che si scrivono, semmai la si trova lì dentro.”
Parola di Alan Bennet, il Sir della satira inglese e forse tra i drammaturghi e sceneggiatori più di culto del panorama anglosassone.
Quando chiamiamo Simonetta al telefono non sappiamo cosa ci aspetta, ma non vediamo l’ora di scoprire da dove nasce quello stile sincopato che ha colto la redazione di sorpresa. Il suo racconto ha il passo del thriller, l’animo della freddura britannica e un linguaggio che azzarderemmo a definire jazz letterario; più che moderno è raffinatamente rivisitato, più che una dramedy la definiremmo thrilledy, se Simonetta ci perdona l’acronimo.
“Sono una copywriter, sono abituata a scrivere e ad essere sintetica, a limare in continuazione per riuscire a dire una cosa importante nel minor numero possibile di parole. R.I.P. nella sua prima stesura ne contava 1500, ma rientrare nei limiti del concorso è un esercizio che ho fatto per anni e che continuo a fare per lavoro…”.
Simonetta non è una semplice copywriter, ha lavorato per Saatchi & Saatchi, forse la più importante agenzia pubblicitaria al mondo, oltre ad aver avuto come maestro all’Accademia della Comunicazione di Milano tale Rizzi, il padre di “liscia, gassata, o Ferrarelle”, tanto per intenderci; sorride quando indaghiamo sulle sue distintive scelte stilistiche, ed è lei per prima a tirar in ballo il mostro sacro con cui abbiamo aperto la nostra intervista.
“Lo ammetto, ho copiato Alan Bennet.” – e scoppiamo a ridere assieme.
Bennet quando gli domandavano delle sue opere, spesso rispondeva che erano opere congiuntive, perché scritte in quel mood che si usa quando qualcosa può essere o non essere accaduto; Simonetta sulla questione ci stordisce con la più bella frase di questo giugno: “Le cose vere non mi piacciono, mi piace raccontare la verità dentro a storie inventate.”.
La magia dello scrivere è racchiusa tutta dentro a queste sue parole: è capacità di distanziarsi dal foglio e di scomparire per far prendere carne al nostro succo letterario, quella cattedrale interiore che scopriamo se sa stare in piedi e rifulgere solo se abbiamo il coraggio di costruirla, pietra dopo pietra, sul foglio.
“Tutto parte dalla scrittura, ogni nostra idea. Se non la scrivi, non la metti mai alla prova.”.
Per la seconda volta in 5 minuti la nostra medaglia d’argento di giugno ci ha colpito e affondato.
E la dimensione breve della flash-fiction va a nozze con la duplice abilità di Simonetta sia di pensare fuori dalla proverbiale scatola, e distorcere i contorni della vita vera per renderla universalmente vera, che di mirare alla compiutezza e all’equilibrio narrativo indipendentemente dallo spazio creativo a disposizione.
La flash-fiction letterariamente è quasi una posa di yoga scrittorio, vive dentro al respiro dei non scritti almeno quanto in ciò che resta sul foglio, e R.I.P ne è un esempio riuscitissimo.
Chi lo legge avverte sotto pelle che la storia narrata è solo un lembo di una storia più grande e se ne appropria con quel muscolo a metà tra pancia e cuore in cui si contrae la nostra immaginazione.
Simonetta adora questo genere, e adora gli scrittori che hanno perfezionato la narrativa breve, come Alice Munro, Carver, Pirandello e Buzzati.
Il primo libro che ha scritto è stato proprio una raccolta di racconti, 12 per la precisione, incentrati sulla figura femminile nelle sue varie declinazioni narrative; “Donne Private” è il titolo e lo trovate su Amazon, mentre l’ultima fatica letteraria è addirittura una trilogia, “Presente”, che nasce dall’idea intrigante di una donna con poco tempo per vivere che scrive tre lettere a tre amici diversi che vorrebbe ricontrare prima di morire.
“Sono contenta che ciò che scrivo piaccia sia ai lettori alle prime armi che agli appassionati della lettura, che ognuno ci veda dentro sfumature e significati diversi. Non potrei mai scrivere con in mente un target preciso di pubblico. Non è così che intendo la scrittura e la letteratura.”.
E intanto ci ha colpito e affondato per la terza volta consecutiva.
“C’è qualcosa di tremendamente libertario nella letteratura, una sorta di indifferenza di base. Ai libri non interessa chi li legge, o che qualcuno li legga oppure no. Tutti i lettori sono uguali per la letteratura, per questo mi piace chiamarla la Repubblica delle lettere.”.
Alan Bennet, un’altra volta.
Ecco, se in Italia nascesse mai qualcosa di simile a una Repubblica delle lettere, Simonetta sarebbe il nostro candidato ideale alla presidenza.
E non è detto che non accada.
“R.I.P” di Simonetta Corrado
Luglio. Piove come a novembre.
Per un neo-morto, giornata perfetta. Ma: com’è successo? Come ho fatto a ritrovarmi incorniciato nel mogano, fra effluvi nauseabondi di gigli, necrologi e ombrelli di circostanza?
Ieri era il mio compleanno. Sono uscito di buon’ora per la solita nuotata. Mare agitato. Io imperterrito e strafottente.
Annegamento? No, dopo le bracciate vigorose, ero steso al sole. Sigaretta accesa. Colpa del fumo? No. Più tardi ero a casa, con Eva. Trent’anni di differenza. Colazione. Sesso. Viagra e pacemaker hanno retto. Ancora.
Ore 13: pranzo di famiglia. I miei parassiti. Infatti c’era anche Luisa. La mia ex. L’assegno generoso per rifarsi non una vita, ma anche le prossime.
Soliti discorsi. Soldi. E poi? Ah sì, denaro. Aldo, rampollo rampante (e cornuto) decide di rovinare la festa. L’azienda. I debiti. Sua sorella Sofia lo spalleggia, ligia, musona, infelicemente sposata pure lei. Il terzo tace, quello scioperato di Antonio. Mani bucate, affabulatore seriale. Non va d’accordo con i fratelli. E con sua madre. Single.
Qualcuno alza la voce. Quando arriva la torta? Eva fa cenno al maggiordomo di portare il caffè. Pessima idea, visto il nervosismo generale. Meno male che i coltelli sono già stati tolti dal tavolo. Vorrei andarmene prima.
Ma non è nemmeno qui che muoio. Non ancora, aspettate.
Esasperato, mi alzo in piedi. Senza riflettere, dico la parola magica: TESTAMENTO. Proprio oggi che compio 79 anni.
Cala un silenzio spettrale. Persino le cicale tacciono. Attente come formiche.
Bene, ora sapranno tutti quanto sono stato giustamente iniquo.
Le azioni restano tutte ad Aldo e Sofia. Con la clausola di provvedere all’assegno della madre, finché non troverà uno più munifico di me da cui divorziare.
La villa va ad Antonio. Con la manutenzione pagata per i prossimi 20 anni. Sai com’è.
All’adorata Eva lascio l’attico, la Bentley, conto in banca a 7 zeri.
Tutti contenti. E contanti.
Intanto, Mario, oltre quarant’anni di onorato servizio, entra con un traballante vassoio. Un miracolo che non si sia ribaltato. Nessuno l’aiuta. Per non offenderlo. Lo ricordo sempre anziano. Inossidabile, umile e decadente. E muto come una tomba, su truffe ed amanti.
Serve me per primo, premuroso. Il chiacchiericcio è ricominciato, più rilassato. Pasciuti dal pranzo e dalle ottime notizie.
Ho generato attesa e impazienza. Mi gratto i coglioni. Io resto qui, a capotavola delle loro vite. Chi mi ammazza a me? Sorseggio il caffè. Ottimo. Bravo Mario. Non mi sfiora il pensiero di non avergli dedicato neppure un asterisco. Del resto, ho piazzato sua figlia in una casa farmaceutica. E quando sarà, piazzerò lui in una casa di riposo.
Ho un capogiro. Scusandomi con i presenti, mi alzo. Vedo doppio. Ma quanto ho bevuto? Mi accascio come una mutanda sporca nella cesta del bucato. Ansimo. Sbavo, biascico, rantolo. Loro, composti, assistono impassibili.
Mario, compassato, più celere di una lumaca, si trascina verso il telefono, quattro interminabili stanze più in là. Nessun cellulare. Sono banditi dalla mia tavola. E oggi hanno tutti obbedito.
Congestione? Ictus? Infarto? Ero in formissima fino a…prima del caffè.
La gola arde. Non è più acquolina, ma avvelenamento. Addio torta. Addio vita, mi sa.
Quando arriva l’ambulanza, sono ufficialmente morto. E voi insospettabili.
Ora vi vedo. Silenziosi. Per il dolore. O forse è gioia?
I gigli puzzolenti sono l’ultima beffa. Se non fossi morto, mi ucciderebbero. Sempre detestati. Lo sapete benissimo.
Giaccio vestito come uno spaventapasseri travestito da maggiordomo. Del resto, dopo il cianuro nel caffè, è stata l’ultima delicatezza di Mario verso di me. Un classico, il maggiordomo assassino. Ci sono cascato come un pivello. Ora ve la ridete sotto i baffi e gli ombrelli. Tranne Antonio, affranto. Forse perché oggi non è potuto andare a scommettere ai cavalli.
Nuora e genero sbadigliano. Attendono che il testamento legittimi futuri divorzi.
Scorgo Mario con sua figlia. Fra le mani ossute e insospettabili, un assegno. Leggo la cifra: un po’ esagerata come buonuscita. Dal mio punto di vista.
Fra le lapidi, i nipoti giocano a nascondino. Finalmente i genitori li hanno portati al parco giochi. Ce n’è per tutti, grandi e piccini.
Dietro fazzoletti asciutti, due donne allacciate in effusioni. Anzi, si strusciano! Mai stato omofobo. Neppure geloso. Però, cazzo, sono Eva e Luisa!
In un amen, muore pure la proposta di un espresso al bar. Decisamente una cattiva idea.
Oggi l’unico che piange è il cielo. E non per me.
Fra veglia e funerale, vi siete pure spazzolati la torta.
Potevate avvelenare quella, invece del caffè.
Ingrati.
La prossima volta vi diseredo.
*autore della copertina: Giovanni Zardini @libri_da_impaginare
3° classificato: “L’occhio” di Riccardo Negri
Ho adorato l’idea di fondo del racconto, una punizione postuma della moglie ingombrante anche da defunta. Molto interessante il colpo di scena finale, che sfocia quasi nell’inquietante. Buono lo stile di scrittura
Intervista al Terzo Classificato del contest di maggio: Riccardo Negri
“Innanzitutto vorrei ringraziare chi ha letto il mio racconto; e naturalmente mi fa molto piacere che sia stato apprezzato da una lettrice professionale autorevole come Stefania Crepaldi. Ringrazio anche “Breve Storia Felice” per avermi dato un pretesto per fare esercizio di scrittura divertendomi.
Sinceramente, fin quasi all’ultimo non ero convinto di partecipare al contest di giugno: non sentivo la traccia proposta nelle mie corde, e non mi era mai capitato prima di scrivere qualcosa del genere. Tra l’altro considero come esempi irraggiungibili, e infatti mi emozionano particolarmente, proprio quelle creazioni artistiche che riescono a far coesistere sentimenti e atmosfere contrapposti (la comicità, il dramma e la poesia dei film di Charlie Chaplin; la dolcezza e l’introspezione di certi brani di rock pesante).
Letto il tema, avevano in ogni caso cominciato a girarmi in testa un lontano ricordo della mia infanzia, un defunto con un occhio mezzo aperto, e l’immaginario monologo in prima persona di qualcuno che, quell’occhio, avrebbe voluto chiuderlo. Attorno alla domanda “Ma perché gli dà così fastidio?” cresceva pian piano una trama. Ma probabilmente non l’avrei mai messa su carta; la voglia di sedermi al pc è scattata assieme all’intuizione che, invece di un monologo, sarebbe stata forse più divertente e movimentata una confessione, a maggior ragione se resa a una persona che asseconda, per motivazioni subdole e folli, la follia del protagonista. Quando poi ho cominciato a ridere da solo, per il ribrezzo che mi provocava ciò che stavo scrivendo, ho capito che forse il racconto poteva stare in piedi. Spero che questo spasso si sia trasmesso anche a qualche lettore.”
Riccardo ha una dote importantissima quando si scrive: sa scegliere i dettagli giusti, e con quelli costruisce un mondo intero fatto apposta per ogni sua storia. Non è una qualità che appartiene a molte penne, non basta inserire dei dettagli, devono essere i dettagli giusti, quelli inattesi, originali eppure universali, capaci di legare ogni lettore al foglio e portarlo nel punto esatto voluto da chi scrive, non 5 centimetri narrativi più in là, ma nel centro esatto fissato su carta da Riccardo. Ogni storia che ci ha inviato possiede questa prerogativa, ogni suo scritto è un bonsai emotivo fatto di piccole scelte determinanti sul foglio, sia tecnico/strutturali che stilistiche. Ti colpiscono nell’insieme e ti incantano dentro ogni riga.
Per scrivere bene bisogna ancor prima saper osservare il mondo e le persone che lo abitano con una propria lente personale, un proprio sguardo letterario sulla realtà. La nostra medaglia di bronzo non si dimentica mai di utilizzarla quando scrive e di sforzarsi con disciplina di riprodurre sul foglio quelle visioni. Se la lente ha sfumato i contorni di un’emozione o li ha diluiti, lui prova a fare lo stesso letterariamente, se la sua lente gli mostra un vedovo grottesco che psicosomatizza la morte dell’odiata moglie, lui ci porta esattamente lì, facendoci divertire per il tempo di 750 parole infuse ad arte nella caricatura.
“A contest chiuso, ho avuto modo di riflettere su quanto avessi effettivamente centrato il tema proposto. Forse ho pigiato più sul pedale del grottesco che su quello del realistico. Va beh, c’è sempre da imparare. Forse anche altri concorrenti non si sono allineati esattamente al registro stilistico richiesto; devo dire tuttavia che ho letto tutti i racconti con piacere, trovando in ognuno motivi di interesse. Tra quelli non segnalati, mi è piaciuto “Shakespeare” di Andrea Rizzi, per come costruisce la tensione e svela, gradualmente eppure improvvisamente, la verità dei fatti raccontati.
A proposito di realismo, apro e chiudo una parentesi: ma certi chirurghi estetici che non hanno remore a cambiare i connotati di anziane signore, non sono crudeli tanto quanto il chirurgo del mio racconto?…”
No, il racconto di Riccardo non era una dramedy, era una parodia volta a contraffare un dramma ma conservandone la cadenza, il tessuto sintattico, i colori. Meritava il podio perché la eco drammatica sullo sfondo si incastra alla perfezione con l’intento satirico e critico che regge tutta la trama.
Chapeau, Riccardo! E grazie a te!
“L’occhio” di Riccardo Negri
«Quel maledetto occhio! Non lo chiudeva del tutto nemmeno da morta».
Seduto capo chino davanti a me, il paziente toglie per un attimo gli occhiali neri e stropiccia con stizza le palpebre.
Attendo, impassibile. Sistemo l’iridoscopio sulla scrivania, poi lo sollecito cortesemente a continuare.
La voce gli esce sfocata. «Avrei voluto tornasse in vita – mi dice, col tono lagnoso di chi non vorrebbe essere guardato – solo per gonfiarla di pugni e chiuderglielo, quell’occhio».
Conosco già la storia, me l’ha raccontata innumerevoli volte. Porto pazienza: è sé stesso che deve persuadere, non certo me.
«Ce l’ho sempre davanti – mugugna – impettita nella bara, col vestito buono, le labbra tirate, e quell’occhio mezz’aperto che mi fissa».
Mi figuro la scena, la salma, la mezzaluna grigiastra della sclera che spicca come un ascesso sul volto ormai livido.
«Mi scrutava come sapesse. Come se stesse prendendo la mira e non volesse più lasciarmi in pace».
Annuisco, ostento comprensione. Lo guardo mentre tenta di ricomporsi giochicchiando con le biro sul piano di lavoro.
«Conoscenti e parenti venivano a farmi le condoglianze, a dire che eravamo stati una bella coppia… e l’occhio di mia moglie, lì, sospettoso e diffidente, che li sconfessava».
Me lo vedo, il povero vedovo: accennare un sorriso smarrito, carezzare amoroso la guancia fredda del cadavere, e con nonchalance approfittarne per tirare giù la palpebra col pollice. Ma quella non si adegua, e il ghigno persiste nel suo muto rimprovero.
Fingendo di ridisporre stetoscopio e cartelline, gli avvicino la scatola delle sferette di vetro.
Come cogliendo un invito, lui ci ficca il dito e le fa schioccare. «Belle queste biglie», dichiara.
Bene: l’esperienza mi dice che si sta un poco rilassando, che presto si convincerà.
Inspira. «Il quarto giorno di esposizione andai presto in camera ardente. M’ero portato del vinavil, anche se non credevo l’avrei fatto davvero. Ma non c’era nessuno, così provai a incollarle le palpebre. Sentii i due lembi morbidi, cedevoli come una buccia marcita. Mi ritrassi schifato. Qualche ciglio s’era appiccicato alle dita. Le sfregai contro i calzoni, ma la sensazione di puzza e impurità mi rimase addosso».
Soppesa una delle palline di vetro. Ci guarda attraverso.
«Il necroforo più tardi notò un pastrocchio sul viso, e lo ripulì. Mi disse che le spoglie si stavano alterando, che lui suggeriva di chiudere, così da ricordare mia moglie sempre bella com’era stata in vita. I connotati si erano guastati: l’occhio sano si era infossato, quello socchiuso era diventato se possibile ancora più inquisitorio. Non lo sopportavo. Avevamo concordato di prolungare la veglia funebre per consentire a mio figlio di rientrare dall’estero, e vedere mamma per l’ultima volta, ma colsi la proposta come una liberazione. Quando però inchiodarono la cassa, lei cominciò a tormentarmi dalle foto ricordo».
Una pausa. «Le sentivo le risatine alle mie spalle. I commenti dei visitatori: “Con un tal marito, ovvio che fosse sempre guardinga e sospettosa”».
Quale colpa tortura quest’uomo? Ha ucciso lui la moglie? Non mi sentirei di escluderlo. O forse la picchiava? La umiliava? Le preferiva altre donne? I filmetti? Gli uomini? Non l’ha mai amata? Non l’ha lasciata quando avrebbe dovuto? Non è affar mio: a me spetta di mettergli a disposizione professionalità e competenze per risolvergli un problema.
«Già durante il funerale – ripete – mi accorsi che non mettevo a fuoco bene, e non per le lacrime. Dopo la sepoltura, molti mi consigliarono di riposare, mi vedevano esausto. Tornato a casa, mi guardai allo specchio; e l’immagine riflessa confermò ciò che già intuivo: un occhio mi si era bloccato a mezz’asta. Da allora non riconosco più il mio viso: è solo quest’occhio guercio e cattivo che vedo. È lei, che mi perseguita».
La pallina gli sfugge di mano. La fissa atterrito mentre ticchetta sul pavimento e rotola fino allo schedario.
La raccolgo tra due dita e gliela mostro. È un modello Liz iride viola.
«Se è sempre del parere – lo informo – procederemo così: le asporterò chirurgicamente la palpebra, per rimuovere definitivamente la complicanza. Il bulbo dovremo sostituirlo con uno di vetro, come questo. Disponiamo di un fornitissimo campionario: Eye-of-the-tiger, Cat verde o azzurro, Manga, l’ironico Malocchio, Punta di spillo, Occhio di Horus o di Allah, Occhio di Falco o di Pernice, il modello Conte.D iride rossa, lo Snake pupilla verticale, il Foca effetto umido… Naturalmente poi consigliamo di indossare una benda: potremmo indicarle un artigiano che produce capi meravigliosi».
Esibisco modulo e penna.
Li guarda. Mi guarda. Leva gli occhiali. Non noto deformità sul suo viso, ma tant’è. Accenno un sorriso di incoraggiamento. Firma.
MENZIONI D’ONORE GIUGNO 2022
Regola numero uno: le tracce vanno rispettate penne felici. Regola numero due: ricordatevi di rispettare le tracce. Ciò detto: fregatevene delle regole quando ne vale la pena creativa. Lanciatevi. Scoprite una vostra nuova voce letteraria sul foglio quando siete messi con le spalle al muro tecnico.
A questo servono i nostri concorsi: a sfidare le nostre idee preconcette su ciò che sappiamo o non sappiamo fare su un foglio di carta, a scandagliare ogni possibilità tecnico/creativa.
Molti racconti sono rimasti fuori da podi e menzioni questo mese e ci dispiace perché avremmo potuto letteralmente individuare lati positivi in ognuno dei racconti concorrenti.
È la dura legge dei concorsi.
A voi le nostre 3 menzioni d’onore di giugno!
E i ringraziamenti a tutti i partecipanti. Ci fate sempre fare bella figura con lettori e giudici d’onore. Grazie!
CHIMICA di Connie Bandini
Per la redazione la flash-fiction più esatta di giugno, una dramedy pura in pillola, con i tempi giusti, comici e drammatici, i personaggi azzeccati e tondi, lo stile e il registro chirurgici.
Paolo Rossi di Stefano Paiuzza
A cavallo tra parodia e racconto grottesco, forse Stefano Paiuzza ha inventato un nuovo genere letterario: il dramesque, un mix tra dramma all’italiana e burlesque. Funziona!
Il funerale del mio miglior nemico di Paco
Un racconto che fonde il dramma alla commedia prettamente romantica. Scritto con i tempi perfetti e un protagonista con cui ci si immedesima dalla prima riga. Complimenti.
GIURIA POPOLARE di GIUGNO 2022
E anche questo giugno Penne Felici siete state lette e laikate. Non tutti quanto si meritavano, ma ogni lettore che emozioniamo con le nostre parole conta. Il testa a testa ha visto Simonetta Corrado e il suo defunto cosciente battagliare con Davide Pinzoni e il suo Fabio dickensiano. A portarsi a casa il proprio racconto tradotto in inglese è Simonetta con 85 like totali tra i cuori di Instagram e i like di Facebook, ma Davide si è difeso più che onorevolmente, aggiudicandosi il 2° posto assoluto nella giuria popolare grazie a 64 like complessivi.
Degne di nota le raffiche di like per “Shakespeare” di Andrea Rizzi, ben 48 per il suo seppellito vivo, i 22 per le “Vibrazioni” della nostra medaglia d’oro, i 21 per la “Bugiarda…” di Virginia Coral e i 18 per il gattino “Jiji” di Jessica Pellizzer.
Continuate a scrivere Penne Felici, a provare a conquistare un like in più con i vostri racconti, a sentirvi scrittori per un giorno su Breve Storia Felice. Come vi direbbe Kurt Vonnegut: “Noi siamo ciò che facciamo finta di essere, e dovremmo porre più attenzione in ciò che facciamo finta di essere.” (da Madre Notte 1961)
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