marzo 2020

 

Michela Gallio

La traccia storica è tosta e non è detto che sia nelle corde di tutti, ho comunque trovato delle cose buone; soprattutto nei racconti che non sono caduti nella trappola del cliché, di un immaginario che cinema e letteratura ci hanno fatto troppo rimasticare.

Assegno la penna d’oro all’unico racconto che ha mostrato una certa verve ironica, tra l’altro non ovvia da abbinare al tema politico; e se è possibile vorrei che fossero due racconti a spartirsi il terzo posto, perché si somigliano così tanto e mi sono piaciuti per le stesse ragioni.

Michela Gallio

 

Medaglia d’oro a “Zuppa” di Matteo Abrami – Un’interessante visione “dal basso” che offre un ragionamento narrativo sulla prosopopea del potere giocando in modo disinvolto e riuscito con lo stilema narrativo delle “scarpe grosse e cervello fino”. Ben montata l’alternanza tra discorso ufficiale e riflessioni del protagonista, e caratterizzato ma non macchiettistico l’uso del linguaggio. Particolarmente riuscito il finale. Nell’affrontare un’epoca storica l’autore ha tra l’altro restituito uno scorcio di estrema attualità.

 

Intervista al nostro primo vincitore, il Breve Scrittrice Felice di marzo: Matteo Abrami

C’è chi è figlio dei propri tempi e chi è figlio di tempi migliori.
Matteo è uno studente di lettere di 21 anni che guardava i film di Woody Allen nell’età in cui i suoi coetanei seguivano solo cartoni animati.
“Ero troppo piccolo per capirli, ma ci provavo…”.
Ad oggi considera una media di un film al giorno il minimo sindacale per la sua fame di storie, e si vergogna di non essere altrettanto esigente quando si tratta di storie scritte. Eppure ha già letto metà del memoriale di Woody Allen in vendita da meno di una settimana, disquisisce sul livello della traduzione e ci consiglia “Elevation” di Stephen King, una novella di 80 pagine, pubblicata due anni fa, per cui sbrodola genuino entusiasmo.
“Woody Allen l’ho letto tutto, e non parlo delle sceneggiature e basta, parlo delle raccolte dei suoi racconti e delle trasposizioni dei suoi monologhi come Saperla Lunga, Rivincite, Pura Anarchia o Effetti Collaterali, materiale che per quanto mi riguarda lo colloca sul piedistallo più alto della comicità, accanto solo ad Aristofane…”
Matteo parla e noi pensiamo a rintracciare un buco nella sua armatura, una crepa che ce lo restituisca figlio della generazione Z, quella dei Post-Millenials nati con i cellulari già in mano e i social media a dettare le regole di relazione umana.
Scopriamo che è ha studiato da perito informatico, ma il dettaglio non è sufficiente per essere declassato a crepa, perché un minuto dopo tra i suoi film preferiti cita Otto e Mezzo di Fellini, Il senso della vita dei Monty Python e, ça va sans dire, Io e Annie di “Woody”.
Non si definisce un appassionato di scrittura, bensì di cinema, e all’attivo ha più soggetti e sceneggiature per corti che racconti vergati di suo punto, anche se col tempo è arrivato ad impilarne almeno una decina nel famigerato cassetto delle speranze, oltre a un racconto a tinte horror già inviato al FIPILI, il festival letterario e cinematografico organizzato a Livorno.
“Zuppa” lo ha impegnato per circa tre ore, più che altro nella mente prima ancora che sul foglio, perché l’idea tardava ad arrivare, i personaggi tardavano a bussare, e quelli Matteo preferisce portarli in vita con già gli abiti del sarcasmo indosso.
Quando il suo Duce e “l’esilarante vecchietto antagonista” hanno fatto la loro comparsa, gli è sembrata l’occasione giusta per toccare l’argomento della politica alla sua maniera, mettendo insieme il sentire di un ventunenne con il disincanto delle generazioni venerande. Il resto è accaduto per magia, come capita spesso quando si cavalca l’ispirazione giusta; è montato sulle spalle dei due protagonisti e si è lasciato trasportare da loro, fidandosi del suo fiuto per la circolarità di una storia e del fatto che entrambi i personaggi sapessero farlo divertire all’interno di una cornice storica che gli serviva solo per rispettare la traccia.
Anzi, a onor del vero Matteo, da amante del cinema, la cornice lui l’ha definita un “MacGuffin”, richiamando il termine coniato da Hitchcock per indicare quel pretesto narrativo che innesca una storia e facendoci balzare nuovamente sulla seggiola.
Il suo stile è moderno e teatrale allo stesso tempo, una sorta di pièce in prosa da Off Broadway dove le sole regole della narrazione da rispettare sono l’originalità, l’occhio divertito di chi racconta e di chi ascolta e la credibilità di fondo.
Woody Allen diceva: “Tutte le persone là fuori conoscono la stessa verità, sono le nostre vite ad allontanarci a seconda del come ognuno di noi sceglie di distorcerla.”.
Matteo potrebbe aver scelto coscientemente di prenderla in giro.

Zuppadi Matteo Abrami

Pensavo fosse più alto. Non so, mi pareva d’averne sentito parlare come di un omone la cui grandezza d’animo è corrisposta dalla stazza fisica. E invece è bassino, molto bassino. Sarebbe stato meglio rimanere a casa oggi, lo sapevo, me lo aveva detto Marietta: “ma dov’è che vai te?”, mi ripeteva stamane, “a sentir il condottiero?”. Però nulla, son qua e mi son già stufato prima che ‘sto qua inizi a parlare. Non so, sarebbe stato meglio esser con la Marietta.

«Con il discorso che intendo pronunciare innanzi a voi, faccio una eccezione alla regola che mi sono imposta: quella, cioè, di limitare al minimo possibile le manifestazioni della mia eloquenza».

Questo qua ha appena iniziato e io non ci sto già capendo nulla. “Loquenza”? «Scusi, il dottore ha detto “loquenza”?» Niente, non uno che mi risponda tra tutta ‘sta folla. Ma che ci faccio qua? Potevo starmene con la mia Mari- «AHIA!»

«La violenza non è immorale, essa è qualche volta morale. La nostra è risolutiva, perché alla fine del luglio e di agosto in quarantotto ore di violenza sistematica e guerriera abbiamo ottenuto quello che non avremmo ottenuto in quarantotto anni di prediche e di propaganda».

«E stia attento suvvia, siam qua, tutti accalcati, e mi pesta il piede? …Ma ci mancherebbe pure che lo ha fatto apposta…eh sì, mi ha fatto male, veda un po’ lei, avrà un 58 di piede alto com’è». Ha proprio la faccia da scemo questo qua. «Non stia a preoccuparsi ora, è passato…Davvero, nulla, nulla, si figuri». Chissà se ‘sto furbone sa che diamine vuol dire “loquenza”: «è la prima volta che ascolta il dottore? …Addirittura! …No, no, per me è la prima. Alla mia età non ci si crede più ai politicanti, però questo Mussolini pare persona per bene, educata». Educata e bassina.

«Voi sapete che io non adoro la nuova divinità: la massa. È una creazione della democrazia e del socialismo. Soltanto perché sono molti debbono avere ragione? Niente affatto. Si verifica spesso l’opposto. La storia dimostra che sempre delle minoranze, esigue da principio, hanno prodotto profondi sconvolgimenti nelle società umane».

E questo è vero. Ricordo anni fa si abitava a Torino. Ci capitarono per le mani un paio di biglietti per vedere una roba a teatro. Ora, a me degli spettacolini me ne importa nulla, ma la Marietta ci teneva, perciò si andò a sentire ‘sta bohème. Una noia, ma una noia che non ci si crede. Io avrei pensato che prima della fine qualcuno tirasse, chessò, pomodori o arance –io, le avessi avute, avrei tirato delle melanzane, belle dure-, e invece che fa il pubblico? Che fa, la massa? Tutti ad applaudire, per un tempo infinito per di più! Si scopre che era piaciuto a chiunque tranne che a me. Ma è come dice il dottore, han ragione le minoranse.

«Amici, io sono certo che i capi del fascismo faranno il loro dovere! …»

Mentre torno potrei prendere le cose per far la zuppa di cipolle per sta sera…

«…Sono anche certo che i gregari lo faranno! … »

…magari chiedo al furbone col 58 se mi dà una mano a portare la roba a casa: «Senta giovine, mi darebbe una mano a sbrigare delle faccende? Sa, alla mia età…Come?» Eh ma non si sente nulla con il dottore lassù che urla, non si può manco parlare.

«…Prima di procedere ai grandi compiti, procediamo ad una selezione inesorabile delle nostre file! …»

«Non ho capito, mi aiuteresti?… Eh? …» Che fastidio! «Mamma mia, quanto parla quello là… oh!»

«Non vogliamo che vi siano in mezzo a noi elementi infi-».

«OH! Lo vuoi fare un po’ di silenzio?»

«…Parla con me?»

«Parlo con lei sì, parlo. Senta Mussolini, sono due ore che blatera, ora ha rotto le balle. Per carità, sulla Bohème son pure d’accordo…»

«La Bohème?»

«Ma sì, quella roba là. Me lo lasci dire però: il resto son stronsate; la violenza, l’onore, la loquenza, tutte stronsate».

«…Lei dice?»

«Eh dico. E anche quella cosa che ha in testa, il fez, mi perdoni, ma è ridicolo».

«…»

«Non la prenda male».

«… Dà un’aria distinta»

«Dottore, a me pare dia un’aria da scemo, comunque veda lei… Oh ma non volevo mica interrompere tutto qua eh, continui, continui pure». Dov’è finito il gigante? Eccolo! «Vieni con me ragazzo, mi dai una mano con le commissioni e poi ti presento la Marietta… Hai da fare a cena sta sera?… E allora mangi da noi, zuppa di cipolle!»

«…Buona la zuppa».

Medaglia d’argento a “Nere” di Noemi Mecca – Un bell’esempio di abbinamento tra scelta dell’ambientazione e tono del racconto: in qualche modo armonico al clima della Berlino degli anni Venti è l’uso secco del linguaggio e dei pensieri, l’espressionismo del racconto in presa diretta. Pur con qualche indulgenza all’abbinamento lessicale prezioso, non sempre riuscito, ho apprezzato molto la ricerca di una lingua non banale, capace di restituire la vivezza del reale e di tracciare in pochi schizzi la personalità della narratrice.

 

 

Intervista al Secondo Classificato del contest di marzo: Noemi Mecca

Gli ultimi saranno i primi. È un classico no?
Noemi si è decisa attorno alle 10 di sera dell’ultimo sabato disponibile per partecipare al nostro concorso sugli Anni 20; le piace la scrittura, ne è attratta da sempre, ma poi la vita irrompe nei suoi sogni.
La traccia non la ispirava, detesta la Berlino in cui ha ambientato il suo racconto e quando ha messo il punto finale non la convinceva neppure la stesura definitiva.
La carta di credito viene respinta dal nostro modulo di iscrizione e così lascia quasi perdere. Poi decide di mandarci un messaggio sul messanger, perché qualcosa spingeva da dentro.
“La deadline era a mezzanotte? Non mi funziona la carta di credito…”
Le abbiamo spiegato che in via eccezionale la chiusura del contest era stata posticipata di 24 ore.
A volte, non sempre ma a volte, il destino si allea con le nostre migliori ostinazioni.
Il giorno dopo ci ha inviato il suo racconto “Nere”: una suggestione berlinese di 380 parole che mette assieme modernità, rabbia e bellezza con un linguaggio che sembra forgiato apposta per omaggiare quei tempi, fatto di ombre e tagli, di crudezza accostata a immagini setose, di schizzi di pensiero su un foglio bianco che è lì per assorbire tutti gli stati d’animo di chi scrive al fine di regalarli alla propria storia.
Due ore di immersione in cui Noemi tira le fila di un gomitolo arrotolato dagli anni del liceo.
“Il mio primo corso di scrittura creativa l’ho fatto quando ero ancora alle superiori, perché ero attratta dal mondo della scrittura; ne seguii un altro diversi anni dopo, e poi tre anni fa, in occasione del FLA di Pescara, il Festival dei libri che si organizza nella mia città, ho partecipato al corso organizzato dalla Scuola Holden di Baricco. Quella notte del 14 di marzo mi sono detta: basta, provaci!”.
Quando ha scoperto di aver vinto ha pensato che ci fossimo sbagliati, che Michela Gallio avesse preso un abbaglio; “scrivo 15 pagine massimo in un anno, e alla Holden mi hanno detto che sono troppo barocca, che alla mia scrittura serve un esercizio di sottrazione…”.
Da quell’osservazione è nato lo stile spezzato e magnetico di “Nere”, una lunga ciglia di Marlene Dietrich che a turno decide se sedurre o giudicare, e che la riga dopo ha già lavato il trucco.
Noemi sogna di scrivere un romanzo alla Cent’anni di solitudine, la sua letteratura elettiva non è certo quella tedesca, semmai la sentimentale, nostalgica sudamericana, fatta di infinite saghe famigliari condannate ad arrotolarsi su se stesse.
Ma Noemi sogna anche di terminare Medicina, abbandonata forse troppo in fretta; è una donna che sta cambiando pelle, che ha preso in mano i racconti del premio Nobel Alice Munro perché sente di voler evolvere, e ha capito che per farlo ci si deve aprire al mondo, alle sollecitazioni che vengono da ogni parte; non si può pensare di rinascere come fanno i serpenti, in un colpo solo, nascondendosi sotto a un cespuglio e procedendo solitariamente alla propria muta.
“Dopo che ho scritto il mio racconto, ho ascoltato per puro caso la canzone Notturno delle tre di Ivano Fossati, cantata da Mina. Nel video c’erano due ragazze che potevano essere le ragazze del mio racconto, quell’immagine mi ha riportato dentro e dietro alle mie righe e ho capito una cosa: la scrittura è possibile solo se ci si abbevera a più fonti, solo se si assorbe vita sulla propria pelle come se fossimo delle spugne e si trova il coraggio di tenersi dentro quell’amalgama di emozioni, esperienze, pensieri che sul momento ci sono persino apparsi inutili e si strizza quel tutto sul foglio, goccia dopo goccia…
L’idea di uno scrittore chiuso in una camera a scrivere sempre della stessa cosa, mi fa tristezza.”.
Quanto è vano sedersi al tavolo per scrivere quando non si è avuta la forza di alzarsi in piedi per vivere, diceva Henry David Thoreau.


“Nere” di Noemi Mecca

Romanische Cafè, Kurfurstendamm.
Le aveva sempre dato la nausea. Questa certezza si frantumò nelle iridi incredule, scese giù in gola in pezzi taglienti che non poté non ingoiare, sfidando un soffocamento che le sembrò quasi mortale, così come lo erano le labbra nere truccate di Britta, in arte Princkly Angel, aperte per mostrare un sorriso imperfetto ma seducente a lui, l’ultimo uomo appetibile rimasto sulla piazza.
In verità, di uomini ne erano rimasti pochi, caduti in guerra o, se risparmiati, decimati dall’influenza spagnola, due anni difficili che sembravano voler arraffare nuove speranze e piaceri mai sfiorati.
Sperò morissero entrambi lì su quel marciapiede, lei in sottoveste avorio e bocchino, lui in completo doppiopetto: una diva ed un uomo d’affari, quali non erano.
Sperò si fossero infettati a vicenda.
Sperò non entrassero a bere neppure mezzo bicchiere; avrebbero, invece, potuto accoppiarsi come animali selvatici sotto gli occhi di tutti, in strada, e lo avrebbero trovato sfrontatamente liberatorio, come se tutto fosse concesso; forse lo era davvero per chi come loro sentiva di appartenere a vite da consumare al di sopra delle regole, al di sotto delle virtù, al di fuori della morale comune.
Quella vetrata sporca le sembrò un velo squarciato ma se lo fece andare bene pur di sentirsi separata da loro.
Forse ad immaginarsi la Clara Bow berlinese, Britta, aveva finito col credersi una flapper hollywoodiana ed aveva sedotto Mirjam con un morso vorace che sapeva di alcol appena ingurgitato mentre lei le stava poco sopra il viso per lucidarle la frangia prima di entrare in scena: l’angelo pungente aveva conficcato un’altra delle sue spine ma, stavolta, in un collo dalla pelle immatura.
I pensieri per quella donna furono cupi ma incessanti. Con sforzo riportò i sentimenti sulla strada che conduceva ad un cliente del club, un tipo strafottente che una sera l’aveva bloccata contro la porta del camerino e l’aveva fatta sentire più grande.
Rivederli lì insieme la fece sentire carica di una ferocia che mai prima aveva pensato
potesse appartenerle, eppure sentiva ogni suo organo gelarsi progressivamente.
Tutto sommato, a lui fece poco caso, perché la sua rabbia era un toro accecato contro
Britta, attrice mediocre, che, a sua volta, puntò contro di lei mimandole un bacio derisorio.
Una nuova consapevolezza: si amava e si sarebbero uccise, a vicenda.

Medaglia di bronzo ex-equo viene assegnata a “Charles” di Stefano Palumbo e a “La prima” di Elena Barsottini. Perché sono due racconti diversi in tutto che però hanno in comune una caratteristica preziosa: hanno scelto come tema le grandi magie dell’epoca che descrivono. Di “Charles” mi convincono la rotondità del racconto, la modernità della voce dell’io narrante e l’intensità con cui l’autore ne restituisce le sensazioni; e il finale è coinvolgente, con un tocco cinematografico. Anche in “La prima” ho trovato convincente il punto di vista, quello di una ragazza del popolo che per la prima volta vede le immagini in movimento: calarsi in questi panni era un esercizio di stile non facile; e anche in questo caso ho apprezzato il finale, perché nel regalare al lettore un sia pur piccolo colpo di scena rende omaggio alla grande tradizione del racconto.

Intervista al Terzo Classificato ex-equo del contest di marzo: Stefano Palumbo

Stefano è il Nostro Breve Scrittore Felice del 2019, il vincitore dei vincitori, una penna abile e misurata che ogni volta che scrive scivola sul velluto e ti porta nel mondo che ha costruito tutto attorno alla storia. Gli abbiamo chiesto di raccontarci il processo creativo che lo ha portato al suo racconto di marzo.
“In realtà conoscevo poco Lindbergh, mi sono documentato un po’ e ho scoperto la sua storia. Il periodo storico è estremamente affascinante, certo, ma ero più interessato all’aspetto umano della faccenda.
Mi ha incuriosito parecchio, sia per le sue gesta aeree che per i risvolti tragici che ha avuto in seguito al rapimento e alla morte del figlio qualche anno dopo la trasvolata. La sua vita mi ha dato da pensare: il fatto che un uomo possa passare alla storia per due avvenimenti così radicalmente diversi, un padre che trova la vita salendo in quota e un figlio che trova la morte cadendo dalla finestra della sua camera.”
A quel punto si è messo a scrivere…

Charles di Stefano Palumbo

Charles trasalì, riscuotendosi con un brivido. C’era mancato poco che si addormentasse.
Staccò una mano dalla cloche, tirando sulla fronte gli spessi occhialoni da aviatore per potersi massaggiare gli occhi iniettati di sangue, poi bevve l’ultimo scarno sorso di caffè dal termos.
Troppo scarno per essere di qualche utilità.
Era in volo da più di trenta ore. Ne erano passate circa tre da quando aveva avvistato il primo peschereccio sulla Manica, sorvolata a centosessanta miglia orarie. Parigi non poteva distare più di cento miglia scarse, e dalle sue stime il carburante era ormai agli sgoccioli. Per risparmiare il più possibile, aveva rimosso dal minuscolo abitacolo qualsiasi attrezzatura che non fosse imbullonata o saldata, compreso l’indicatore del carburante e gran parte della strumentazione di bordo. Tutto ciò che aveva, per riuscire a trovare la rotta, erano i piccoli finestrini laterali, il rudimentale periscopio a specchi ed il suo orologio-sestante. Il gigantesco serbatoio del suo monoplano, lo Spirit of St. Louis, era tanto ingombrante da aver costretto i progettisti ad eliminare perfino il lunotto anteriore.
I progettisti, già. La sua mente offuscata dalla stanchezza ripensò a tutti i rifiuti che aveva ricevuto quando si era proposto alle grandi case aeronautiche per la traversata in solitaria da New York a Parigi. Lo avevano preso per matto. Troppo giovane, quello spilungone biondo di ventitré anni, troppo inesperto e timido. Beh, fanculo a loro. Ce l’aveva quasi fatta. Non era sempre stato così sicuro. Solo dieci ore prima, dopo venti di volo ininterrotto, era entrato in uno stato di lucido dormiveglia. Dopo altre tre, erano cominciate le allucinazioni.
Il mare si era trasformato in solida terra, liscia ed invitante come un panno di velluto. Per qualche istante, aveva pensato di poter atterrare su quel morbido verde, prima di tornare lucido e riprendere quota con un sussulto, tirando convulsamente la barra verso di sé. Un paio di piedi più in basso e di lui sarebbe rimasto solo un ammasso di legno, alluminio e sangue a galleggiare sulla superficie dell’oceano.
Era la prima volta che volava tanto a lungo. Nemmeno le centinaia di ore che aveva passato a consegnare sacchi di posta tra St Louis e Chicago sui vecchi Airco DH4, vecchi bombardieri della Grande Guerra riciclati come mezzi civili, lo aveva preparato a quell’ordalia.
Quel lavoro tuttavia, quella libertà, quella meravigliosa sensazione di sentirsi parte di qualcosa di più grande di lui lo ripagava ampiamente di tutto. Era l’era dei grandi aviatori, dei coraggiosi cavalieri dell’aria e delle loro cavalcature di legno, alluminio e ruggenti eliche, a centinaia di piedi di altitudine. Impavidi esploratori, alla ricerca di nuove rotte attraverso il cielo azzurro. Aveva rinunciato agli studi, ad un futuro noioso e prevedibile, per poter solcare il grande blu finché avesse potuto, e non aveva intenzione di arrendersi ora.
Ci sarebbe stato un tempo per metter su famiglia. Una moglie e dei figli, forse. Magari un maschio dai fitti riccioli dorati, come i suoi da bambino. E una bella moglie, alla quale raccontare dei suoi voli. Un’aviatrice, chissà. Non ce n’erano ancora molte, erano invece sempre di più le amazzoni dell’aria, meravigliose valchirie dalle ali di legno di balsa.
Distolse la sua mente dai suoi vagabondaggi in quei sogni febbrili, accorgendosi che la terra, quella vera, aveva fatto la sua apparizione. Le campagne francesi scorrevano sotto l’apparecchio, verdi e punteggiate di coltivazioni, fattorie, vita. Ogni segno della guerra che aveva falcidiato quelle terre non più di dieci anni prima era ormai cancellato. Mantenne la rotta, e presto l’agglomerato urbano di Parigi fece la sua apparizione sulla destra. Sorvolò la periferia, e attraverso il periscopio individuò l’aeroporto Le Bourget, appena dietro la città. Abbassò l’aereo, allineandolo alle linee
bianche della pista di atterraggio.
Ed ora, la parte difficile.
Abbassò delicatamente la cloche, quasi accarezzandola, e appoggiò le ruote di gomma dell’aereo sulla pista, fermando l’apparecchio con la grazia di un’anatra che atterra su un lago placido, per poi spegnere il motore.
Charles tese le orecchie, perplesso. Nonostante il motore si fosse fermato, il rumore proseguiva, crescendo ogni secondo di più. Aprì il portellone, esausto ed incredulo, ed un boato esultante eruppe da migliaia di gole.
Erano tutti lì, per lui. Addetti ai lavori e semplici cittadini, migliaia di persone, uomini, donne e bambini. Correvano sul prato verso di lui, festeggiando l’impresa di quel bizzarro ragazzo dinoccolato che aveva trionfato contro la natura. Solo con un aeroplanino di legno, i suoi sogni ed il suo coraggio.

Mi chiamo Charles Lindbergh, aviatore, ed oggi è il 20 maggio 1927.

 

 

Intervista al Terzo Classificato ex-equo del contest di marzo: Elena Barsottini

Elena è una partecipante seriale a concorsi letterari. Perché il limite del bando, di una traccia o del numero di parole non solo non le mettono paura, ma stimolano la sua creatività nel modo giusto.
Ha moltissime passioni, la maggior parte legate alle immagini, sia reali che create dalla fantasia: dalle illustrazioni, ai collage, alla grafica, fino ad arrivare alla scrittura, il modo con cui riesce a fissare sia parte della sua vita che flash dal mondo delle idee che le devono galoppare a briglie sciolte nella mente.
“Mi sembra che scrivere mi consenta allo stesso tempo di evadere e di non perdere nulla per strada. Ho una singolare propensione alla conservazione…”.
Ci teneva d’occhio da qualche mese, il concorso sull’Amarcord le è sfuggito per pura mancanza di tempo, ma quello sugli anni 20 era sufficientemente lontano dalle sue corde per solleticare la sua voglia inconscia di sfidare i propri pensieri, la propria creatività, di vincere la battaglia con il foglio bianco o con qualsiasi storia o sottostoria imprigionata a metà tra realtà e universo parallelo del possibile a cui le piace restituire un’esistenza, seppur cartacea e bidimensionale.
“Non sapevo molto degli Anni Ruggenti, così mi sono messa a fare ricerche. Finalmente mi sono imbattuta nella storia di quella prima proiezione al Colony. Ho letto di questo collaboratore di Disney, l’ultimo arrivato che aveva escogitato l’idea del metronomo, e il resto è venuto da sé, compresa la figura protagonista.”.
Elena ci racconta che non conosce mai la fine dei suoi racconti; ha unicamente bisogno di vedere ad occhi aperti ciò che succede all’inizio per poi abbandonarsi alla propria immaginazione. Il suo processo creativo è a metà tra il lavoro paziente di un giardiniere, che coccola il seme della propria idea fin da quando è sottoterra, e il mestiere dello spaventapasseri che si diverte a illudere il resto del mondo pur di proteggere quello stesso campo.
Scrivere spesso ha molto a che fare con la capacità di credere in qual cosa che non è reale come se viceversa lo fosse, e di saper osare laddove si teme di non poter arrivare.
Quest’anno ha partecipato a un concorso di letteratura tattile per non vedenti; bisognava scrivere una storia – per di più in rima – che potesse essere trasformata in un libro speciale che racconta toccandolo e non leggendolo. Sulla carta una sfida ancor più tosta di tutte le precedenti, per la nostra medaglia di bronzo un bungee-jumping creativo con tuffo nel vuoto e ritorno.
Ha vinto il concorso – al terzo tentativo ci tiene a sottolineare – seguendo il ritmo di altri fili mentali, di avventure narrative che non sarebbero mai state possibili senza la capacità di sorprendersi e di sperimentare.
Elena è così, legge Harry Potter, ma anche Calvino, le piace “la magia dell’infanzia”, ma non nelle sue declinazioni fantasy, bensì in capolavori inaspettatamente lirici come “Le ceneri di Angela”, un libro sconosciuto di un sessantenne al suo esordio letterario che in poco tempo ha conquistato il mondo grazie al ribaltamento delle premesse inziali ad opera del più cazzuto, disincantato e ironico bambino della letteratura. Non le piacciono le storie a lieto fine, le piace il “lieto mezzo” nella storia, le chiavi che portano altrove, le intossicazioni di allegria liquida che ha infilato nel suo racconto per noi.
Ci ha consigliato sia “La monetina di Woodrow Wilson”, romanzo di fantascienza umoristica dello scrittore statunitense Jack Finney, che “Lo Sbiancamento dell’anima” di Rocco Tanica, il tastierista storico di Elio e le Storie Tese, nonché collezionista di dettagli e attimi al pari della nostra vincitrice.
Elena è una ventata di aria fresca, e anche un caso anomalo: le piace costruire con le mani e con le idee, e alla libertà preferisce i bastoni fra le ruote della sua immaginazione, perché se l’intelligenza ama i problemi, la creatività adora e si nutre di paletti. “Non abbiate paura dei concorsi letterari, non abbiate paura di non essere capaci, lasciatevi andare, abbandonatevi alle vostre fantasie, alle immagini che vi sono rimaste negli occhi. Stupitevi di voi stessi.”.

LA PRIMA Elena Barsottini

“Grazie molte”, dissi all’uomo coi baffi che mi aveva gentilmente lasciato il posto.
Seduta in fondo al teatro, tra un pubblico di sconosciuti, ripresi fiato a testa bassa, lo sguardo fisso sulle mie scarpe dal tacco un po’ scolorito, ma lucide e tirate a nuovo. Avevano lo stesso aspetto di quelle dell’anziana signora seduta vicino a me, che si guardava intorno con aria impaziente. Stringeva nervosamente un paio di guanti tra le mani, ogni poco lanciava sguardi dietro di sé in direzione dell’uomo gentile che, ora in piedi con le spalle al muro, attendeva l’inizio del film.
C’era qualcosa di elettrico nell’aria.
Era domenica, il giorno del cinema a prezzi popolari, il giorno del “Colony’s Greatest Show”, dove i film si potevano vedere e ascoltare come mai prima d’allora. C’era un nuovo sistema che faceva uscire il suono dai movimenti degli attori e loro si muovevano, suonavano e facevano rumore e sembrava di averli tutti lì, ma lì non c’erano.
Jane mi aveva convinto ad andare. Mi aveva detto: “Penny, sono riusciti a distribuirlo! Lo daranno domenica al Colony, non puoi mancare. È una magia che si tocca senza mani, solo con gli occhi e con le orecchie”.
Mi aveva travolto con il suo entusiasmo. Era contagioso. Jane era eccitata, innamorata e orgogliosa del suo fidanzato e della sua idea vincente. Mi aveva detto: “Wilfred ha pensato al metronomo! L’ultimo degli uomini di Walt ha risolto il suo problema” e saltava come una bambina. “Come poteva sincronizzare i disegni con il suono? Con il metronomo. Ad ogni battuta il numero di fotogrammi giusto”, continuava con voce baritonale, imitando il capo di Wilfred. “Penny, funzionava! I disegni animati si muovevano a tempo con la musica. Il suono sembrava fuoriuscire direttamente dallo schermo. Era magia”.
Tutta l’esaltazione di quel ricordo sembrava essersi d’improvviso congelata.
Luci spente.
Gli altoparlanti emisero un suono prima frusciante, poi gracchiante.
Grande, grande davanti ai miei occhi apparve un disegno che si muoveva, un battellino a vapore che trasportava un topo avvolto nella musica. Sembrava un bambino dispettoso: fischiettava, ogni suo passo rimbalzava con il ritmo e ballava e poi faceva le pernacchie e si sentivano in tutto il cinema. La gente rideva sgangherata, senza più ordine né contegno, entusiasta di ciò che vedeva. Davanti a me un bambino era scivolato dalla poltrona e non capivo se la mamma si era piegata per riportarlo su o per le risate. Era divertentissimo, era magico, era entusiasmante e nuovo. Vera intossicazione di allegria liquida.
Mi sentii afferrare. Era l’anziana signora dei guanti. Si stringeva al mio braccio e aveva gli occhi pieni d’emozione, e un bellissimo sorriso felice. Parlava con me, ma guardava dietro di sé. Fissava l’uomo elegante che mi aveva lasciato il posto. Mi disse: “Guardi, quello là dietro è il signor Disney”.
Lui indicava il pubblico in delirio, sostenendosi alla spalla del suo vicino, e nei suoi occhi si leggeva una magia divenuta realtà.

MENZIONI D’ONORE

“Ritratto d’autore” di Virginia Coral

Perché è difficile scrivere meglio a sto mondo e in pochi tratti creare un mondo, dei personaggi e un’atmosfera. Stevie Wonder poteva cantare tutto, la nostra Virginia può scrivere di tutto.

 

 

“Il Dio dei liquori” di Gianluca Marino

Per un finale che ribalta l’intero mood del racconto, così ben architettato dentro all’immaginario gatsbyano classico, quasi a farci intuire che la storia non fa altro che ripetersi e che quegli anni 20 potrebbero essere anche oggi.

 

 

“Inside the Portrait” di Anna Maria Maffezzoli

Pper l’originalità dell’idea del racconto dentro al racconto. In 300 parole è difficile utilizzare tale espediente letterario, ma osare è una tra le doti più importanti davanti al foglio bianco.

 



I VINCITORI DELLA GIURIA POPOLARE

 

Nonostante il coronavirus, qualcuno ha capito che il modo migliore per affrontare le crisi che toccano il corpo è tenere ingaggiata la mente. Grazie a chi ha letto i racconti di Breve Storia Felice, grazie a chi li ha scritti; a stravincere la gara di like di marzo è Anna Maria Maffezzoli con 83 voti complessivi tra pollici alzati e cuori su Instagram, dietro di lei con 19 voti complessivi Noemi Mecca si aggiudica l’ultimo biglietto di ingresso al nostro super sfidone di dicembre che offre al vincitore la possibilità di vedere il proprio racconto trasformato in graphic novel. Brava anche a Elena Barsottini che ha perso il 2° posto di soli 3 voti. 


 

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