dicembre ’19 – gennaio ’20

 

I Nostri due giudici d’onore psicoterapeuti Marco Riva e Roberta Resega hanno eletto Breve Scrittore Felice di gennaio:
Loredano Cafaro con il suo racconto “Il guardiano del faro

 

“Qui si parla di sogni o di realtà? C’è differenza? Un bambino sogna e sogna Babbo Natale che è un ex-umano che sognava. I protagonisti di questo racconto sono abitati da fantasmi come tutti noi. Tranne coloro che sanno, cioè i sapientoni, che sono chiusi nei loro deliri di realtà. Loredano Cafaro ci porta a vivere emozioni oniriche, ignote, vere emozioni lontanissime dai prefabbricati emotivi. Il suo Babbo Natale è sì un super eroe ma incerto, pauroso, dubbioso e non sa come la storia andrà a finire anche perché abita un sogno non suo. Ma rimane lì a vivere e come un Angelo sopra Berlino può sussurrare al sognatore.”

 

 

Intervista al nostro primo vincitore, il Breve Scrittore Felice di gennaio: Loredano Cafaro

Il suo racconto ha ipnotizzato tutta la redazione, quel momento di silenzio che riempie una stanza quando la scrittura riesce a portarti altrove, a mormorare nell’aria segreti che hai sempre saputo e che qualcun altro ha messo dolcemente in fila per te.
Loredano riesce a farlo con ordine, con pulizia, attraverso immagini poeticamente sentite e poi trasferite sul foglio con la stessa cura di un potatore di bonsai.
Le geishe fin da giovani vengono allenate a roteare i polsi per eseguire alla perfezione il rito del tè, si allenano per ore, anno dopo anno, fino a quando i muscoli acquisiscono una memoria. Il racconto di Loredano ne custodisce più di una. Porta con sé il ricordo degli anni del liceo, quando scrivere era divertente perché poi c’era la bancarella a Torino in via Garibaldi, “Libri in fotocopia”, che esponeva racconti selezionati ai passanti, dando la possibilità agli interessati di acquistarne una copia nella copisteria che li stampava. Racchiude in sé il giorno in cui suo figlio maggiore ha scoperto che Babbo Natale non esiste, il battito che li ha uniti nel tracciare un nuovo confine dell’incanto, una nuova complicità tra il sognatore che cresce e chi è guardiano del faro. E porta con sé vent’anni senza più scrivere, perché vivere, per tutti, nessuno escluso, è come il gioco della torre, a turno ci tocca gettare giù qualcosa.
La memoria dei gesti che abbiamo amato da ragazzi, però, resta per sempre; è il bello di un’età che vola via troppo in fretta ma lascia dietro di sé qualche piuma a farci il solletico sotto la pelle.
Loredano è un informatico, un marito, un padre di famiglia, e un uomo che dal telefono ci rimanda il buon vecchio pudore, quella sana abitudine a prendere sul serio alcune cose e saper ridere di molte altre.
Due anni fa ha recuperato tutti i suoi vecchi scritti adolescenziali, ha editato tutti i racconti che erano finiti sulla bancarella di Via Garibaldi, più uno che non aveva mai visto la luce su carta, e ne è nato un e-book.
“Non l’ho mai spinto più di tanto, era più un modo per fermare nel tempo quegli anni. L’ho fatto tradurre in inglese invece, perché il fatto che potesse essere letto in un paese lontano mi tranquillizzava…”.
La prima recensione è entusiasta, Loredano riprova quel brivido giovanile rimasto sotto la cenere dai giorni del liceo.
“Ci ha pensato la seconda recensione a infrangere la magia in un istante: era una stroncatura su tutta la linea.”.
Chi scrive ha un solo modo per funzionare a pieni cilindri: imparare a convivere con le proprie vulnerabilità come se fossero attacchi di sciatica. Loredano ha impiegato qualche mese per assorbire la botta, poi ha digitato su Google: “contest”…
La nostra scadenza ravvicinata era un buon viatico per obbligarsi a girare pagina.
Il racconto non è nato di getto, ci sono voluti tre giorni per plasmarlo, per limarlo, bilanciarlo, in modo che ogni riga fosse essenziale come in una poesia, ma immediata come la prosa più incisiva.
“L’ho letto e riletto un sacco di volte, all’inizio avevo pure sforato oltre le 750 parole, per cui si è innescato un concatenamento di termini cancellati e altri aggiunti che ha richiesto del tempo…”.
Loredano sta davvero ricominciando da capo; dato lo scarso tempo a disposizione ha messo da parte la lettura di romanzi per dedicarsi a testi didattici che possano aiutarlo ad affinare la tecnica scrittoria. E che testi, signori.
“Ho letto Story di Robert McKee, e ho anche comprato il suo libro sui dialoghi.”.
Saltiamo letteralmente sulla seggiola. Robert McKee è il leggendario guru americano dello storytelling, un docente che in 40 anni di lezioni ha formato 65 vincitori di Oscar, 200 vincitori di Emmy, altrettanti vincitori di premi vari in America e in Inghilterra sia per la scrittura che per la sceneggiatura, oltre ad aver assistito personalmente Akiva Goldsman nella stesura di A Beautiful Mind, Peter Jackson per Il Signore degli Anelli, Andrew Stanton per Alla Ricerca di Nemo e Paul Haggis alle prese con Million Dollar Baby.
In due parole: Dio Robert.
“Per me è indispensabile studiare anche la scrittura, imparare la tecnica. E poi, ovvio, bisogna scrivere e scrivere e avere pazienza.”.
Robert McKee quando insegna parte sempre dalla Poetica di Aristotele per poi inchinarsi davanti a Shakespeare. Loredano ha stile e tempi vagamente britannici e teatrali, a metà tra i Racconti di Canterbury in chiave moderna e le tesi universitarie che fanno stilare in Inghilterra a chi studia letteratura. È evocativo e asciutto allo stesso tempo, perché ha il coraggio di abbandonarsi al racconto nel momento giusto, di lasciarsi portare, ma possiede anche la disciplina per riprenderlo in mano e tenerlo in pugno prima del punto finale.
Come direbbe Robert McKee: “Uno scrittore, quando scrive, recita un testo e poi improvvisa assieme ai suoi personaggi. È l’unico modo perché prendano vita.”.

 

Il guardiano del faro di Loredano Cafaro

Oggi Andrea è tornato a casa piangendo. Quando il padre e la madre hanno sentito cosa gli ha raccontato un amico, hanno capito che era giunto il giorno temuto da tempo, il momento in cui avrebbero dovuto iniziare a infrangere i suoi sogni. Gli hanno parlato, gli hanno detto che non esisto. Ma sbagliano.

Sogno, dunque sono.

Ogni volta è differente. I sogni di Andrea sono luci che illuminano le stanze di un castello e filtrano dai vetri nella notte buia. Una delle finestre sparisce alla vista: la prima luce è stata spenta, la mia nemesi è già all’opera. Devo fare in fretta, prima che del castello non resti che un rudere buio. Scosto l’anta del portale in legno con la sommità ricurva del pastorale ed entro.

Sono il bagliore negli occhi, sono il sorriso al crepuscolo; sono la schiena che si rialza.

Lo faccio da talmente tanto tempo che la mia vita sembra non essere mai stata diversa. Eppure ero un uomo, una volta. Quando alcuni bambini del mio villaggio scomparvero, cercai e stanai il colpevole: il nostro vescovo, che ambiva a ritrovare la propria innocenza cibandosi della loro, degli occhi con cui guardavano il mondo. Lo affrontai e persi, mi uccise. Striò le mie vesti, mi trafisse con il pastorale e mi lasciò cadere dall’alto della torre del campanile. Un uomo rosso del suo stesso sangue sul tetto della chiesa: è curioso come nascano le leggende. Mi uccise, ma non morii. Non per un dono divino, non per un evento esterno; non morii perché, fino all’ultimo, non smisi di credere di poter salvare quei bambini. E ci credo ancora, credo ancora nei sogni. E vigilo sui mortali affinché facciano lo stesso, dal primo vagito all’ultimo sospiro.

Sono il lieto fine, sono il primo amore; sono l’oltre.

Le luci si stanno spegnendo, una dopo l’altra. Avanzo nel buio, in ogni camera intravedo una candela tagliata di netto. Lo trovo in una stanza vuota se non per l’eco di risate felici, sul muro l’ombra sorridente di un bambino si abbandona sicura all’indietro tra le braccia della madre. Nella fantasia di Andrea il mio avversario è glabro, occhi bianchi, corpo ossuto avvolto in un costume scuro, sul petto un simbolo che non riesco a decifrare; sembra uscito da un cartone animato. Regge in mano un’ascia a due lame, pericolosamente vicina alla candela al centro della stanza. Si accorge di me, inclina la testa di lato e mi fissa per un istante con i suoi occhi spenti, poi scaglia con forza l’ascia che inizia a roteare. D’istinto sollevo il pastorale a mezz’aria, riesco a deviarla, ma una lama mi sfiora la guancia sinistra e tinge di rosso la mia barba bianca. Non so quali altre armi, abilità o poteri possa avere nell’immaginario di Andrea, ma non ho intenzione di scoprirlo. Scatto in avanti e con la punta del pastorale lo colpisco in piena fronte, poco sopra gli occhi. Poi lo guardo dissolversi in cenere.

Sono il sogno, la speranza, la fiducia. Sono gli occhi di un bambino.

Sento qualcuno alle spalle, mi volto già sapendo chi sia.
«Sei un supereroe?» mi domanda Andrea.
Non so cosa io sia, ma mi piace il modo in cui mi vede Andrea: sì, sono un supereroe. Oltre la finestra, la figura a cavallo di una scopa che si staglia contro la luna mi ricorda che non sono il solo. Ma a ognuno la sua storia.
Mi accovaccio sulle ginocchia davanti ad Andrea, lo guardo negli occhi e sorrido. Poi lo prendo per mano e ci incamminiamo lentamente, avanziamo stanza per stanza, grattiamo via un po’ di cera e riaccendiamo ciò che rimane delle candele. Alcune sono state tagliate più in alto, altre più in basso: quale più quale meno, bruceranno tutte ancora per un po’.
Ne manca soltanto una, la prima che si è spenta. È in una stanza colma di doni avvolti in carta colorata e fiocchi arricciati. Sotto l’albero addobbato c’è un disegno che potrebbe somigliarmi un po’, se soltanto il rosso del costume fosse più scuro. Non c’è niente da fare, la lama ha tagliato troppo in basso e ha lasciato ben poco; questa candela proprio non riusciamo a riaccenderla.
Andrea mi rivolge uno sguardo triste e si abbandona a un abbraccio.
«Non ti dimenticherò» mi sussurra all’orecchio.
Sì, Andrea, mi dimenticherai. Sarò soltanto il fumo di una candela che si spegne. Ma poco importa, ciò che conta è che tu possa sempre scorgere una luce nel buio.

Sono il guardiano del faro.

 

Sul secondo gradino del podio: MarylinMo’ con “Rose e Cioccolato

“Ci piace la Storia e ci piace la Magia. Non psicostoriografia (Asimov) né Psicomagia (Jodorowsky) ma pensiamo ad un racconto di Magiorìa, nuova disciplina fondata da MarylinMo’, che permette di modificare la storia con la magia. Calati nell’orrore “carne bianca e tremula accanto a lunghi, neri fili spinati”, loro là che l’hanno vissuto e noi qui, a leggere, insieme sentiamo il freddo e il terrore senza nome nostro e loro. La magia è arte antica di Babbo Natale, che è antico e, in quanto tale, non multitasking. Quindi… Quindi pausa. La magia fa una cosa alla volta. Un simbolo, cioè un cappello rosso, che cade una volta.”

 

 

Intervista alla Seconda Classificata del contest di dicembre ’19 – gennaio ’20: MarylinMo’

“Ha scelto questo pseudonimo perché Marylin il mondo intero se la ricorda sorridente, ed è così che alla nostra intervistata piace essere ricordata. Sempre.
Ci sono coppie che decidono di non andare mai a letto arrabbiate, MarylinMo’ tempo fa ha deciso di non addormentarsi mai senza prima aver regalato un ultimo sorriso della giornata a qualcuno: ai suoi bimbi, al suo cane, a un’amica.
“Volevo scrivere una storia che assomigliasse a un sorriso. La felicità è un obbiettivo che va inseguito giorno dopo giorno, non è un posto che si raggiunge se fai certe cose o imbocchi una data strada. È l’immagine di un Babbo Natale che la mattina del 25 regala ai bambini in un campo di concentramento un’isperata doccia al profumo di rose e cioccolato.”.
Non glielo diciamo, ma forse quando hai dei figli impari a raccontare il mondo attraverso le favole, ad aggiungere un filo di zucchero ad ogni situazione perché l’amaro è un sapore che va scoperto a piccole dosi, non a cucchiaiate.
“Io sono brava a portare chi mi ascolta dove voglio, a creare mondi e immagini con le parole per venderti delle cose. Ho venduto vino per anni, l’ho raccontato ai clienti come se fosse un amico d’infanzia, una persona in carne ed ossa con il proprio temperamento e la propria terra nel sangue. Scrivere è un po’ la stessa cosa. Devi creare un mondo e fare in modo che gli altri credano che sia vero.”.
Ha ragione da vendere: scrivere è dar vita a un microcosmo in cui lo scrittore ha il ruolo del creatore e i lettori di Adamo ed Eva.
Nel mondo di MarylinMo’ Babbo Natale avrebbe fatto qualcosa durante il Nazismo, non sarebbe restato a guardare; in quel mondo magico Babbo Natale non si limita a volare su una slitta, sa anche parlare tedesco, sa ordire un piano, ma soffre e ha paura esattamente come tutti noi.
Per 726 parole le credi e quando arrivi al punto finale Adamo ed Eva stanno sorridendo.
“Mi piacciono tutti gli scrittori sudamericani: Gabriela Mistral, Pablo Neruda, Isabel Allende, Roberto Bolaño… Mi piace che possa succedere tutto al punto da convincerti che la realtà sia più mistica di quanto immaginiamo, che una tazzina di caffè possa davvero spingerci ad agire…”.
Noi le ricordiamo che Bolaño, non solo non ha mai studiato scrittura, ma non ha mai studiato punto: si è letteralmente auto-formato alla vita e allo scrivere.
“Non lo sapevo! Bolano è un folle. Ha una fantasia pazzesca e un modo di raccontare così sontuoso che pensavo fosse un letterato.”.
Ha appena finito di leggere i suoi Detective selvaggi, un libro che in America è diventato di culto e che da noi stenta a decollare al pari delle opere intimo-surreali di David Foster Wallace. Le diciamo che a Roberto il suo Babbo Natale sarebbe piaciuto, ma MarylinMo’ a dispetto dello pseudonimo è più inquadrata dei suoi personaggi di carta.
“Ma figuriamoci! Avrebbe detto che è scritto in modo troppo semplice. Banale. Il suo Babbo Natale avrebbe pagato una prostituta bellissima per distrarre le guardie di Auschwitz e poi avrebbe sparato a tutti soldati, ma alle gambe, per permettere ai prigionieri di mangiarseli ancora vivi.”.
La nostra Penna Felice si considera un fallimento davanti alla tastiera. Inizia romanzi ogni due mesi, a volte anche più di uno, una trentina di pagine che poi non ha mai la costanza di portare a termine. Ha una cartella sul computer piena di storie che non ha mai il tempo di sviluppare.
“Il racconto per noi, però, l’hai terminato…”
“Beh, 750 parole non lasciano spazio a scuse. Neppure con un lavoro e una famiglia…”.
Il suo “Rose e Cioccolato” l’ha scritto in una domenica pomeriggio, con il suo cane accoccolato sui piedi e la cena nel forno.
“Guardavo il cappello di Babbo Natale appeso al nostro albero e non so perché ma ho pensato a quel cappello che cadeva dall’alto su una distesa bianca e portava la magia in un mondo triste. Da quell’immagine è nato tutto.”.
…Roberto Bolaño avrebbe detto: “Ho guardato quel cappello e mi è sembrato un fiore carnivoro. E da quell’immagine è nato tutto.”.

 

Rose e cioccolato di MarylinMo’

Dovevo fare qualcosa. Tutti devono fare qualcosa nei momenti bui.
Anche se per tradizione a me erano toccati sempre e solo i momenti felici.
Da anni tenevo alto il buon umore, la voglia di festeggiare, nonostante il mondo facesse pensare a un regresso di massa fino al Medioevo; non era facile neppure per me fingere che ci fosse ancora speranza. Eppure c’era sempre un episodio, un piccolo evento nella vita di tutti i giorni, un bimbo che rideva, un padre che impacchettava un orsetto a notte fonda, un attore che cadeva a metà della scena e che si rialzava per portare a termine lo spettacolo. Bastava quello per ridarmi fiducia, per credere che l’umanità fosse una collana da tenere assieme giorno dopo giorno, maglia dopo maglia, mano in un’altra mano.
Così decisi di fare qualcosa, anche se non sarebbe stato sufficiente.
Partii prima quella notte, era così presto che credo che qualcuno mi abbia visto volare in un cielo non del tutto nero. Mi fermai sopra i tetti, puzzavano di plastica bruciacchiata, come se lì dentro si fossero sbucciate un milione di ginocchia contro l’erba dell’innocenza e delle enormi narici di ferro propagassero quell’odore in tutto il mondo. A monito.
Mi ero documentato, avevo studiato giorno e notte per la mia missione. Sapevo dove collocavano i granuli di Zyklon e li sostituii con perle di sapone. A contatto con l’aria calda sarebbero diventate bolle leggermente rosate, migliaia e migliaia di bolle profumate che sarebbero cadute sulle teste di 6000 bambini proprio nel giorno di Natale. Era un piccolo gesto, ma l’umanità si salva un piccolo gesto alla volta; perfino noi supereroi l’abbiamo capito dopo duemila anni di esperienza.
Li vidi camminare coi fucili verso di me, forse avevano notato la slitta, benché fossi certo che il fumo la nascondesse.
“Wer ist da?!”
Fortunatamente avevo un lontano prozio tedesco, per cui seppi cosa rispondere. Dissi loro che ero il chimico e che stavo sistemando un problema alle bocchette dello Zyklon. Ci credettero dopo i sei secondi più lunghi della mia vita pressoché eterna.
Volai via prima che il fumo si diradasse attorno alle 5 di mattina, in ritardo sulle consegne in tutta Europa ma felice come non lo ero da secoli. Era pericoloso tornare indietro di prima mattina, con la luce mi avrebbero visto bambini, bambine, mamme, papà, anziani ormai rassegnati a ciò che si può spiegare e ciò che non si può; mi avrebbero visto i militari, avrebbero sparato a Rudolph convinti che si trattasse di un aereo inglese camuffato da slitta volante. Churchill era il tipo capace di cose del genere.
Eppure tornai indietro lo stesso, perché l’umanità si salva anche un grosso rischio alla volta. Ed era giusta che lo prendesse uno come me. Avrebbe ridato fiducia al mondo intero.
Volai sopra infiniti campi di neve bianca, in una mattina di tregua per soldati e civili, a guardarlo da cento metri d’altezza il mondo sembrava un orso addormentato a pancia in su. Fu tutto più facile del previsto, fino a quando vidi il fumo uscire da quelle ciminiere che da troppo tempo diffondevano odore di ginocchia che si erano sbucciate troppo presto.
Erano in lunghe file di due, un filo di carne bianca e tremula accanto a lunghi, neri fili spinati.
Tremai. Anche noi supereroi lo facciamo a volte. L’immortalità non ti preserva dal dolore, dalla speranza, dalla paura; onestamente è la cosa che preferisco del soprannaturale.
Entrarono piangendo, alcuni di loro urlando e disperandosi nonostante le botte dei fucili contro le loro fragili schiene per farli smettere.
Mi nascosi sul tetto, un’altra volta, pronto a sfoggiare dell’altro tedesco quando mi avrebbero avvistato.
E poi caddero: una pioggia lieve di bolle rosse che profumava di rosa e cioccolato e che ricoprì i bambini come la carezza di una madre. Smisero di strillare quasi subito e i soldati pensarono che fossero morti, ma io li spiavo dai bocchettoni, sapevo che non era vero. Danzavano, si sfioravano guardando verso l’alto, si abbracciavano e si muovevano sulle punte e non facevano rumore. Sembravano sottacqua. Senza paura di cadere, o di farsi male. Quando riaprirono le porte, tornarono a galla in un istante e li cacciarono fuori a pedate, infuriati. Volai via in quel momento, sfruttando la confusione, ma lasciai cadere il mio capello rosso verso il basso, perché l’umanità, miei cari, si salva un simbolo alla volta.

 

Sul terzo gradino: Mauro P. con “Mandy

 

“Come si misura la cattiveria? E poi, che cos’è la cattiveria? Questo racconto sembra far emergere la questione sotto forma di staffetta con una scopa come testimone, dove ‘l’essere befana’ per un anno rappresenta il purgatorio delle anime femminili peccatrici. Questa volta però la cattiveria ‘vince’ sulla mediocrità, e il supposto superpotere della befana non consiste nel passaggio alla bontà ma alla acquisizione di consapevolezza come possibilità evolutiva.”

 

Intervista al Terzo Classificato del contest di novembre: Mauro P.

Mauro non voleva farsi intervistare. Ad alcuni di noi piace raccontarsi a gocce, facendo passare pezzetti di sé attraverso il setaccio della parola scritta, di una storia inventata ma che ci riflette meglio di uno specchio.
Ha acconsentito solo perché non abbiamo insistito; ci ha ricontattato a patto che non si parlasse troppo di lui, ma della scrittura.
“Deal.”.
Adora leggere, e adora le serie televisive, le divora nelle notti insonni prima che la sveglia suoni.
“La punto alle 5, ma a differenza degli altri non mi serve per svegliarmi, mi serve per obbligarmi ad andare a letto. Lavoro da casa per cui posso vivere secondo un fuso orario tutto mio.”.
Scrive spesso, e da sempre. Ha iniziato attorno alla prima media, perché lo divertiva colorare le cose che gli accadevano di un colore diverso. Un giorno brutto a scuola diventava un mercoledì da leone, un’amicizia sfumata un’avventura epica in un mondo popolato da draghi.
“Se traslo ciò che mi accade sul foglio, riesco a prenderne le distanze, a riderci o a piangerci sopra più facilmente. Ormai è un’abitudine salutare come bere due litri d’acqua al giorno.”.
Legge soprattutto romanzi storici o thriller, mentre ai classici non riesce ad affezionarsi.
“Mi sembra un dovere leggerli, te lo fanno cadere dall’alto gli intellettuali come se fosse un obbligo morale. E io detesto gli obblighi morali, sono molto più bravo con quelli professionali.”
“A ognuno il suo.” – ribattiamo – “Se vuoi scrivere di professione, leggere i classici dovrebbe essere un obbligo professionale.”.
“Uno evidentemente che rispettano in pochi oggigiorno.”.
Touché. Chiediamo a Mauro di vergare un racconto per noi, uno che colori questa triste verità di un colore diverso. Ma lui tace.
Non sappiamo quanti anni abbia e neppure quale lavoro faccia, ma è di gran lunga più interessante parlare del suo racconto. Del perché un uomo abbia pensato ad una storia di pseudo-redenzione interamente femminile.
“Non scrivo mai pensando ai sessi, scrivo lungo il flusso dei miei pensieri e i pensieri non hanno un genere, checché ne dicano. Non ci sono pensieri che hanno solo le donne e pensieri che hanno solo gli uomini. Io tutta sta differenza non la vedo, soprattutto in questi ultimi anni in cui è tutto più blurrato. Si crede che ci sia sto spartiacque solo perché ce lo fanno credere da piccoli. Io, da sempre, l’unica differenza che riscontro è nei fatti, mai nei pensieri. Noi ci attacchiamo al passato, alle cose che hanno funzionato in precedenza, le donne si attaccano al futuro, a ciò che di bello le attende. Il che fa di noi l’umanità meno concreta della storia.”.
Ride e noi con lui. Ha un modo tutto suo di vedere le cose e al mondo delle parole scritte non serve altro. Serve quella bolla in cui testa e cuore si incontrino prima di esplodere nell’aria confondendosi con la realtà di tutti i giorni.
“Quanto ci hai messo a scrivere il racconto?”.
“Un’ora scarsa, e dieci minuti per correggerlo. Sono allenato a scrivere, all’esercizio della fantasia. E la Befana mi sta sulle palle da tutta una vita. Ho pensato di punirla un po’ e poi di ricolorarla di rosso. Di quelle estremità che nascondono sempre uno strappo. Beh, mi sono detto, meglio uno strappo di una stupenda fettuccia di raso lucido che non subisce mai tensioni. Così in un’ora ho riabilitato a me stesso la Befana senza manco volerlo…”.
Questo è il trucco di Mauro: usare la scrittura per flirtare con il mondo delle idee.
Mens sana in corpore sano, dicevano i latini davanti agli dei. Ma forse questa come chiosa finale è troppo classica per Mauro.

Mandy di Mauro P.

Se sapeste la verità su di me, metà di voi scoppierebbe a ridere, l’altra metà si prenderebbe a cazzotti da sola.
In India pensavo che prima o poi avrebbero scoperto il segreto, la reincarnazione in fondo fa parte della loro religione, ma evidentemente sono più portati per la matematica che per la fede nello straordinario.
La prima di noi era stata davvero cattiva, così cattiva che le tolsero la capacità di volare e le diedero in cambio una scopa magica su cui spostarsi. Girovagò un anno intero alla ricerca di un nuovo corpo in cui rimaterializzarsi: doveva essere femmina, ugualmente spietata e impunita.
Detta così sembra più una maledizione che giustizia supernaturale, ma un anno da befana è un autentico toccasana per le donne meschine là fuori e – statene certi – prima o poi toccherà ad ognuna di loro.
365 giorni per fare un bagno di umiltà, per essere prese in giro per il proprio aspetto, per essere schifate, ignorate ed evitate da ogni uomo sulla faccia della terra. E solo alla fine si conosce il proprio destino. Se la prescelta in realtà è migliore di chi l’ha preceduta, la reincarnazione non funziona e la Befana in carica resta Befana per altri 365 giorni, con tutto quello che comporta; in caso contrario le è permesso di tornare sulla terra nei panni di chi ha scelto e di riparare ai torti della “collega”.
Finora nessuna è stata scelta una seconda volta, una singola esperienza ha bonificato anche le esemplari più invidiose, rancorose e subdole del genere femminile. Il problema come al solito sono le donne mediocri, quelle che non sono così cattive da finire nel radar, ma che allo stesso tempo non fanno niente per essere delle donne degne di essere chiamate tali.
Mandy era una di loro. Texana, un metro ottanta, due gambe da urlo, un seno che non aveva smesso di ipnotizzare sguardi dal terzo anno di liceo e la bieca abitudine di fregare i fidanzati alle sue amiche per il puro gusto di sentirsi la Più Bella della Scuola perfino a 30 anni suonati.
Io ero molto peggio di lei. Io gestivo un bordello in Colombia, facevo rapire le ragazzine più carine dai villaggi vicini, le illudevo di essere una sorta di madre putativa e poi le obbligavo a prostituirsi fino a quando i clienti le trovavano attraenti. Intorno ai 30 anni le declassavo a donne delle pulizie, o cuoche, o le obbligavo a reinventarsi come corrieri della droga. La metà di loro finiva ammazzata entro i dieci anni successivi.
No, con Mandy la reincarnazione non avrebbe funzionato e mi sarebbero toccati altri 365 giorni in quel corpo bitorzoluto e ripudiato. Il mio ego mi diceva di no, la mia anima non riusciva a liberarsi di lei.
Si dice che i cattivi dentro si riconoscano a vicenda; doveva pur voler dire qualcosa quella mia ruminazione morbosa su un’insulsa bambola bionda in procinto di sposare uno dei petrolieri più ricchi d’America. La detestavo profondamente, volevo che fosse punita lei su centomila altre donne più infami. Era per la sua bellezza? Per il suo potere sugli uomini? Per quel suo modo infantile di giustificarsi sempre, di scrollarsi le colpe dalle spalle come fanno le bambine in un pomeriggio soltanto dopo aver rubato il cioccolato…
Era forse per quella sua apparente incapacità di essere sporcata dalla vita come il resto di noi?
Ero disposta ad essere Befana per altri 365 giorni pur di poterla scalfire, pur di vederla finalmente perdere.
La reincarnazione avviene nella notte del 6 gennaio, non è complicato. Ti basta incrociare lo sguardo della vittima dopo che è sorta la luna e se la tua scelta è quella giusta, lei si ritrova a cavallo di una scopa, tu nel suo corpo.
Forse volevo solo quello e non ero ancora pronta per far pace con il genere femminile. Le Befane non lo sono mai.
La guardai mentre si infilava in una sottoveste succinta che lasciava intravedere le sue grazie.
Non funzionerà, pensai, le donne davvero malvagie ammazzano, non si limitano a confondere ogni altra donna con una rivale.
“Mandy, tutto bene?…”
Lasciai cadere la sottoveste a terra e uscii dal bagno.
“Mi amerai anche quando sarò vecchia e brutta?”
“Credo che morirò prima, baby.”
Mi tornarono in mente tutti i visi di quelle ragazzine rapite per colpa mia.
Non l’avrei mai amato. Non esiste un uomo in grado di far innamorare due donne in una sola. Ma pensai che n’era comunque valsa la pena.

MENZIONI D’ONORE

“Sogno di Natale” di Machi Blu
I supereroi che ci piacciono di più sono quelli che ci ricordano le nostre piccolezze e le nostre grandezze, i nostri slanci più nobili e le ricadute puerili. Nessuno è più umano e più eroe del Babbo Natale di Machi Blu.

 

 

“Fanny” di Virginia Coral
Per il personaggio di Gimpy che è tra i meglio tratteggiati, seppur in due righe, di tutto il contest, e per quella passeggiata notturna sulla scopa volante di Fanny che non poteva essere descritta in maniera più vivida.

 

“Una notte senza stelle” di Ilaria Romano
L’idea di una coppia di supereroi casalinghi ha divertito tutta la redazione. Il fatto che Babbo Natale e la Befana siano in realtà due salutisti forzati della forma fisica un segno dei tempi dentro a un racconto.

 



I VINCITORI DELLA GIURIA POPOLARE
ossia i due racconti che hanno ottenuto il numero più alto di like combinando i voti di Facebook e quelli di Instagram

Nonostante il racconto pubblicato nell’ultimo giorno (Una Notte da Supereroe), la nostra Breve Scrittrice Felice Tiziana Colosimo è virtualmente imbattibile nella battaglia dei like. È lei la vincitrice indiscussa della giuria popolare di gennaio con 73 like su Facebook e 3 su Instagram. Seconda classificata Luisa Di Toma con la sua Befana femminista che raccoglie in sole ventiquattro ore 30 pollici alzati su Facebook e 5 cuori su Instagram.

 

 

1° Tiziana Colosimo – 73 “like” su Facebook e 3 cuori su Instagram = 76
Si aggiudica il Premio Social di BSF


2°Luisa Di Toma con “Befane” – 30 “like” Facebook e 5 cuori Instagram = 35

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