febbraio 2021

Podio del Contest di febbraio 2021

Il nostro giudice d’onore Edoardo Stoppa ha stilato la sua personale classifica di febbraio. “Onesta e di cuore, sperando di non ferire chi non è stato scelto.” – così ha precisato.

 

1° classificato: La figlia del sole di Virginia Coral

Un primo posto meritato per l’originalità della storia, per la capacità di farci volare lontano assieme alla sua Araba Fenice; grazie per l’importante messaggio, ora attuale più che mai.
Abbiamo proprio bisogno di “un destino di rinascita che pervada l’universo”.

 

Intervista al nostro primo vincitore, il Breve Scrittrice Felice di febbraio: Virginia Coral

Cosa chiedere ancora alla nostra Virginia Coral? L’abbiamo appena incoronata Breve Scrittrice Felice 2020, l’abbiamo accompagnata sul podio in tre occasioni e menzionata altre quattro; ogni volta che scrive ti trasporta in un altro mondo, dove le cose si disfano, rinascono, pulsano, sanguinano e contano più di quanto accada nel reale. Ti accoccoli dentro alle sue pagine e lasci che il tuo andamento vada al passo con lo scorrere del tempo letterario che soffia tra le righe.
Noi di Breve Storia Felice, quando la leggiamo, pensiamo ogni volta di essere sotto incantesimo, non comandiamo più la lettura, è lei che comanda noi, che ci guida laddove tutto è più bello, più alto, imperturbabile, come dentro ad una palla di vetro. Sei davanti al miracolo della neve, ma non senti freddo, provi solo bellezza.
E ogni volta che partecipa ai nostri concorsi, Virginia fa nevicare.
“Grazie a Edoardo Stoppa per aver scelto il mio racconto e per il bellissimo commento. E grazie soprattutto per essere sempre al fianco dei nostri amici animali, che sono la parte più integra del nostro mondo. Ho fatto un paio di tentativi scrivendo qualcosa sui miei tre gatti, ma poi ho pensato all’Araba Fenice, che rappresenta tutti noi, con le nostre speranze, i nostri dolori e la forza di ricominciare. Un grazie anche alla redazione di Breve Storia Felice, che ci regala ogni mese l’occasione di metterci alla prova e di confrontarci.”.
Grazie a te Virginia: per l’amore per la scrittura che possiede ogni tuo gesto sul foglio bianco, per la sapienza tecnica di chi sa fare sacrifici creativi per ore e ore, senza dare per scontato né il proprio talento né le proprie storie.    

 

La figlia del sole di Virginia Coral

Le mie ali dorate splendono come antichi gioielli. Le dispiego in tutta la loro maestosità e mi libro nell’aria pura, puntando verso il cielo di zaffiro. Il sole illumina le piume rossastre, mentre inseguo le correnti, ebbra dei profumi del vento. Amo la terra, i suoi colori, quell’alternarsi armonico di oceani e foreste, di deserti roventi e di montagne di ghiaccio.
Non amo gli uomini. La loro mente è limitata, legata alla quotidiana ricerca di piaceri transitori. Guardano di rado verso il cielo. Alcuni lo intuiscono con gli occhi della fantasia, altri lo invocano inginocchiati sull’assito della chiesa, oppure, ubriachi, lo maledicono. Faticano a uscire dalle loro gabbie di mattoni, opprimenti gusci di quotidianità. Se rivolgessero più spesso lo sguardo in alto, verso la profonda trasparenza dell’infinito, se s’inoltrassero nel cristallo del cielo oltre le soffici nuvole, sarebbero rapiti dal fascino dell’immensità e si sentirebbero meno afflitti. La terra li attrae con le sue mediocri abitudini, li fagocita in un liquame grigiastro fatto di dispute e rancori. Gli uomini non hanno ali.
Quando mi vedono solcare il manto notturno, mentre in fiamme corro verso il mio destino di morte, non riconoscono in me l’Araba Fenice, non rendono omaggio alla mia essenza divina. Gridano invece alla cometa, mi scambiano per una palla di fuoco impazzita e gravida di presagi inquietanti.
Tutto nell’universo ha un termine e un nuovo inizio. La materia è programmata per cadere in uno sterile letargo e poi rinascere più fulgida di prima. I semi sono l’esito del frutto inaridito, ma racchiudono l’anima della pianta, serbano traccia della sua passata esistenza. Il ciclo deve compiersi. È il destino e la condanna cui nessuno sfugge, la sorte cui deve sottomettersi ogni essere vivente, anche le creature sacre come me.
I granelli di sabbia devono scivolare tre volte da un’ampolla all’altra della clessidra.
Al primo passaggio, la mia coda si frantuma in schegge di luce e il mio corpo soffre nei sussulti dell’agonia. Sono consapevole di essere stata creata per risorgere e per questo tra gli spasmi di dolore fiorisce una smorfia di speranza. Mi rifugio oltre l’orizzonte, dove nessuno può vedere le mie penne annerite esalare gli ultimi bagliori. La sofferenza è atroce, lenita soltanto dalla certezza di risvegliarmi più forte e sfavillante di prima. Mi aggrappo a quel pensiero soave, mentre le ustioni scarnificano i muscoli e coagulano il sangue. Guardo il blu della notte e chiudo gli occhi. Una pesante cortina di silenzio mi avvolge e cado in un sonno profondo. In quegli istanti, che possono essere giorni o secoli, non ho percezione di cosa succeda intorno a me, né so cosa accada al genere umano. Gli esiti sono visibili in tutta la loro crudezza molto più tardi, quando la fase di rinascita si è compiuta. Guerre, pestilenze, genocidi sono i frutti delle tenebre in cui si dibatte il mondo. La terra si spegne con me. Gli uomini cadono in un inferno di buio, annaspano, maledicono di essere nati. I prepotenti commettono atrocità, i deboli soccombono incapaci di reagire.
Un dio di luce capovolge la clessidra e fa scivolare un velo di energia sui miei resti mortali. O forse è il vento, vecchio amico di giochi aerei, che trasporta un’idea di vita. Non ho coscienza dell’attimo in cui scocca la scintilla, ma ne percepisco gli effetti. La cenere, attratta da un’invisibile calamita, si trasforma in un agglomerato informe, nerastro e fragile, che cresce d’ora in ora. Lo scarno involucro contiene un vigore esplosivo e la memoria delle stagioni. E la mia anima.
Nell’ultimo arco di tempo i muscoli prendono vita e si ricoprono di tenere piume pallide. A ogni battito d’ala il corpo si rigenera e assume un colore rosso oro. Sono pronta a prendere il volo verso la volta celeste. Allora la forza distruttrice delle epidemie viene meno, la possanza degli eserciti si esaurisce, l’equilibrio si riappropria delle sue regole di cristallo. E gli uomini sentono sulla pelle l’alito profumato dell’amore.
Le ferite sono presto dimenticate, come gli errori e i misfatti. L’umanità non fa tesoro delle esperienze nefaste, ma le perpetua fino all’epilogo del mondo. Talvolta, per grazia divina, in quel lasso di tempo in cui tutto fiorisce nascono uomini geniali, regine illuminate o geni creativi che intuiscono i canoni della bellezza e ne fanno meraviglie. Persone speciali che scorgono focolai di armonia dove altri vedono solo caos. I loro capolavori, le loro parole sopravvivono a dispetto del tempo, tramandati per millenni di padre in figlio, a testimoniare il destino di rinascita che pervade l’universo.

 

 

2° classificato: Il Cavallo di Torino di Dioniso Crocifisso 

Seconda posizione meritata per averci trasmesso in poche righe l’enorme vuoto di una vita rubata, di un maltrattamento continuo che passa inosservato sotto gli occhi dei più. E grazie per averci anche regalato, in mezzo a tutta questa tristezza, un attimo di puro amore, un’ancora a cui aggrapparsi per tutta la vita.

 

 

Intervista alla Secondo Classificato del contest di febbraio: Dioniso Crocifisso

Dionisio Crocifisso è un omaggio a Friedrich Nietzsche. Il filosofo, ritenuto ormai affetto da problemi psichici, urlava quel nome mentre veniva allontanato dalle forze dell’ordine che provavano a sciogliere il suo abbraccio appassionato ad un cavallo in Piazza Carlo Alberto a Torino.
In realtà Dionisio si chiama Claudio e non vuole aggiungere altro.
“Significa claudicante… Mi sono laureato in filosofia per evitare di claudicare almeno in un ambito della vita.”.
Ha preferito utilizzare uno pseudonimo perché insegna a sua volta filosofia in un liceo italiano, e benché spinga quotidianamente i propri alunni a scrivere, ad esprimere e rielaborare il proprio dentro, “a coltivare la propria originalità come una disciplina”, crede anche che un buon maestro vada usato e gettato via, e non vada mai adorato o emulato.
Lui scrive da sempre, appunta pensieri, riflessioni, frasi che suonano bene nella sua mente e che lo emozionano quando le rilegge ad alta voce nel suo studio.
“Ho sempre scritto per me stesso. Di me stesso. E degli altri. Ma mai storie o racconti. Sempre e solo poesie in prosa o riflessioni. Conservo ancora tutto su fogli volanti dentro a cartellette molto meno volanti, a pagine di libri e testi di studio. Lascio che sia il caso a farmeli ritrovare tra le mani nel momento giusto. Rileggo ciò che ho scritto ed è come se mi specchiassi dentro alla vita, come se recuperassi una parte di me che ha intravisto l’immagine più nitida delle cose. Questo per me è scrivere, scattare una foto a un momento interiore. Per non perdere né lui né il suo sviluppo nella camera oscura della mia mente.”.
Si scusa, sta perdendo il filo, o forse, più che il filo, “ha perso l’ago”, ci dice.
Claudio non si prende troppo sul serio, vive di passioni, di stimoli, di empatie, l’unica serietà a cui ambisce è quella dei bambini quando giocano.
“Lo diceva Nietzsche, una delle figure più fraintese tra i grandi pensatori dell’umanità. Il mio racconto è dedicato interamente a lui, l’ultimo dei romantici, un uomo che non aveva bisogno di sembrare serio, ma che provava semmai ad essere il più chiaro e trasparente possibile perché solo così il suo sentire profondo poteva essere intravisto dalla superficie…
L’episodio al centro del racconto è accaduto davvero. Per Nietzsche gli animali vedevano nell’uomo un essere loro uguale che aveva perso in modo estremamente pericoloso il sano intelletto animale: vedevano in lui un animale delirante, un animale infelice. Mi è sembrato il momento perfetto per ricordarcelo.”.
Dionisio/Claudio ha una scrittura che procede per scatti di pensiero, per struggimenti e risalite sul foglio. È spezzata e asciutta, ma mai crudele, è come un brano musicale suonato più lento del dovuto sulla tastiera affinché la pagina vibri con esso. Il tono conta più del testo, l’intenzione valica la trama.
“Non sono uno scrittore. Scrivo per non dover memorizzare ciò che penso, per viverlo più volte.”.

Il Cavallo di Torino di Dioniso Crocifisso 

Piazza Carlo Alberto – Torino – 3 gennaio 1889

Mi chiamo Ronzino, o forse no. Non saprei dirvi di preciso. Sono un cavallo da tiro pesante, o almeno così dicono. A volte mi chiamano solo TPR. Ecco perché non so dirvi con precisione il mio nome. Sono solo un oggetto animato che conduce una carrozza tutti i giorni. La mia tragica vita si srotola grave tra Piazza Carlo Alberto, dove attendo i passeggeri che porto in giro per le vie di Torino, e la mia piccola stalla. La mia sofferenza non sta tanto nel duro lavoro a cui sono obbligato, piuttosto alla mancanza di relazioni, di affetto e considerazione. Ho fatto amicizia con un cane che scorrazza per le scuderie ed ogni tanto viene a trovarmi. Quando lo vedo vado quasi in estasi. In quei brevi momenti mi sento vivo solo perché qualcuno si è accorto che esisto, che vivo, che ho un’anima, che ho bisogno di affetto e compagnia. È la solitudine che mi fa male. L’assenza di amore. Neanche con i miei compagni di sventura nella stalla riesco ad avere un rapporto, le stalle sono troppo piccole e non ce lo consentono. Credo ci tengano così perché non facciamo molto rumore e poco gli importa di come stiamo, di quanta solitudine soffriamo.
“Mi dicono che l’uomo ama se stesso. Ahimè, quanto deve essere grande questo amore, quanto disprezzo deve vincere!”
Il più bel ricordo è di quel giorno che cadde a gennaio. Faceva molto freddo ed ero fermo da molte ore in attesa di fare il mio lavoro. Ero quasi ghiacciato; da tanto tempo ero immobile. Avrei voluto correre. Correre via. Corre verso la libertà fino a morire stremato tra boschi e prati. Avrei voluto incontrare un qualsiasi essere vivente. Avrei voluto avere una vita che si potesse raccontare non in solo due righe. Avrei voluto avere amore. “Nel vero amore è l’anima che abbraccia il corpo.”
Quel giorno un uomo mi stupì e mi inebriò. Quel giorno feci pace con l’Uomo. Quel giorno capii che non tutti gli uomini erano come quello che mi teneva schiavo, mi obbligava ad un lavoro massacrante e degradante, mi considerava un oggetto da usare a sua unica discrezione senza un minimo di rapporto se non quello che c’è verso una proprietà. Io e la carrozza alla fine eravamo considerati alla stessa stregua. Anche se io vivo e lei è solo un’accozzaglia inerme di legno e ferro.
Quell’uomo mi abbracciò e mi baciò con le lacrime agli occhi. Quell’uomo sentiva su di sé le frustate ed i calci che continuavo a subire. Quell’uomo capiva cosa sentivo, chi ero e che esistevo.
E quell’unico abbraccio vero, sentito e sincero è l’unico splendido ricordo che ho della mia intera vita. Perché “Tutto ciò che è fatto per amore è sempre al di là del bene e del male.”
Quell’Uomo si chiamava Friedrich Wilhelm Nietzsche.

 

3° classificato: Amici di Giovanna Adelaide Busacca

Terza posizione meritata per l’originalità della storia, per averci fatto vivere e assaporare un’improbabile grande storia di amicizia e soprattutto per aver dato una dignità inaspettata e non scontata ad una ameba. Non da sottovalutare la riflessione sul futuro del mondo che molto probabilmente vedrà le amebe essere più protagoniste del genere umano.

Intervista alla Terza Classificata del contest di febbraio: Giovanna Adelaide Busacca

Giovanna è la nostra Stevie Wonder. Di lui si diceva che avrebbe potuto cantare l’agenda telefonica, lei ci potrebbe comodamente ricavare un racconto pindarico. Scrivere è il suo habitat naturale, una tabula rasa di carta su cui fissare il mondo delle idee, un raptus alla volta. Per liberarsene o al contrario per non perderle, questo è il dilemma.
“Ogni mese leggo la traccia e lascio che i pensieri vaghino liberi.
In questo “periodo” (le virgolette sono d’obbligo a causa della vastità di questo tempo che sembra non appartenerci più e, soprattutto, non avere limiti), i pensieri sono gli unici a poter vagare, mentre io mi sento costretta in una bolla atemporale, mi sento un’ameba…
“Oh, ma guarda, l’ameba è un’animale no?”, mi suggerisce la mente che rincorre un abbozzo d’idea e subito – per abitudine, per amore delle parole, per una sorta di mia personale deformazione – si sofferma sul significato, sull’etimologia. Ed ecco che la fantasia galoppa e l’ameba diviene un personaggio che nulla ha a che fare con quell’immagine iniziale di mollezza, disfatta, inutilità, anzi racchiude la capacità di cambiamento, di adattabilità, che tanto vorrei possedere.
Devo contrapporle un personaggio più “concreto” e con il pensiero galoppa un cavallo. La forma epistolare mi appartiene e in questo momento la sento ancor più mia: vada per la lettera allora…”.
I racconti di Giovanna continuano a dare, sono matriosche di pensiero e immagini esattamente come la loro gestazione; il resto lo fa il controllo tecnico di chi lavora con e sulle parole da sempre, un’abilità quasi lirica a non scrivere mai con lo strumento non accordato.
Non leggeteli cercando una trama, fate l’esatto contrario: abbandonatevi al loro flusso di coscienza fino a quando non vi restituiranno pezzi di una storia intrecciati attorno a pezzi di un sentire che ambisce a dettare la rotta.
In redazione abbiamo trovato geniale la scelta della forma epistolare, la vera chiave di volta; ogni altro “montaggio stilistico” avrebbe tolto ritmo, potenza e sensuale frangibilità alla narrazione, minando l’architrave invisibile e precaria su cui poggia e si ripete il segreto di tutto quanto il racconto.
Cosa c’è di più fragile e sublime di un’amicizia che vive e si nutre di sola telepatia, di intangibile intesa psichica? Cosa c’è di più fragile e sublime dell’attesa di una lettera che ci smuova e allo stesso tempo ci rinsaldi nella distanza dei corpi e del tempo?
A Giovanna non è la prima volta che capita di ritrovarsi sul podio con un racconto che non ritiene tra i suoi migliori…
“È come se venissi apprezzata quando non mi apprezzo e non me ne spiego la ragione.”.
Honoré de Balzac diceva che “gli incompresi si dividono in due categorie: le donne e gli scrittori”, e forse questo potrebbe bastare per archiviare il caso di Giovanna in partenza; in realtà chi di professione è abituato a ripensare le parole in base al loro senso, alla loro cadenza e alla loro suggestione, a volte si dimentica di creare sogni dal nulla.
“Amici” è un racconto al tempo stesso remoto e sperimentale, denso ed etereo, lineare ed ellittico, perché quando Giovanna abbandona la donna di lettere e si veste di impeto per la scrittura, il suo in-bilico creativo dà vita ad un magnete letterario.

 

Amici di Giovanna Adelaide Busacca
“Caro amico ti scrivo così mi distraggo un po’ e siccome sei molto lontano più forte ti scriverò…”
Prendo in prestito le parole di una canzone che mi è capitato di ascoltare spesso sulla spiaggia qui vicino e che trovo adeguate a noi.
Ricordo ancora la mattina in cui ci incontrammo per la prima volta. Ti vidi correre a perdifiato sulla sabbia e poi accostarti – madido di sudore e con la bocca schiumante – all’acqua che ti lambiva gli zoccoli. Immergesti il muso nella piccola onda e, dopo aver bevuto una lunga sorsata, cominciasti a sputare, schifato.
Non riuscii a trattenere una risata e, salendo in superficie, ti dissi:
– Quest’acqua è salata, è acqua di mare, non lo sapevi?
Mi guardasti storto, indietreggiando, più sorpreso che spaventato.
– Ciao, no, non lo sapevo. Mi sono allontanato dal branco e quando ho scorto questa lunga striscia di sabbia costeggiata dalla pozza d’acqua più grande che avessi mai visto, non ho resistito al desiderio di correre. È soffice e al tempo stesso compatta, l’aria ha un gusto diverso e galoppare da solo con la criniera al vento mi è piaciuto moltissimo. Ora però muoio di sete e, prima di tornare in collina, ho bisogno di rinfrescarmi.
– So che dietro quegli scogli, alle tue spalle, c’è una piccola pozza d’acqua piovana che fa al caso tuo.
– Ti ringrazio. Vado.
Stavo per immergermi, quando un tuo nitrito mi richiamò.
– Se dopo aver bevuto torno qui, ci sarai ancora?
– Non prevedevo di restare in zona, ma perché no? Ti aspetto.
È cominciata così la nostra amicizia. Forse qualcuno la trova strana, ma non ce ne curiamo. Amiamo le nostre lunghe conversazioni pur se avvengono con tempi dilatati. Non è semplice darci un appuntamento. Viviamo in mondi assai diversi.
Prima di conoscerti, sapevo che esistono i cavalli perché sulla spiaggia mi era capitato di vederne passare qualcuno. Tu invece non avevi mai sentito neppure il nome della specie cui appartengo.
– Ameba? – mi chiedesti attonito – Non ho mai sentito questa parola, spiegami.
– Saprai già che i nomi ce li danno gli uomini, loro hanno questa innata tendenza a classificare tutto, sono fissati. D’altra parte è l’unico modo che conoscono per placare l’ansia con cui trascorrono l’intera esistenza. Cercano di incasellare tutto: dagli esseri viventi alle condizioni atmosferiche, dalle costellazioni alle emozioni… Pare che nel corso dei secoli abbiano usato linguaggi diversi per comunicare (per loro sfortuna non sono evoluti come noi che usiamo la mente) e nel loro greco antico il termine “ameba” significhi “cambiamento”. Noi amebe, pur di sopravvivere, ci adattiamo a tutto. Pensa che potrei persino diventare un tuo parassita, entrare in una tua frogia e ambientarmici o da lì passare al cervello.
Tu mi ascolti sempre con attenzione e questo è un aspetto che apprezzo moltissimo in te. Da subito, senza quasi averne consapevolezza, io sono diventata la “saggia ameba” e tu il “pazzo cavallo”. Le nostre menti riescono a connettersi anche ad una certa distanza, ma non troppa. Quando parti col branco, superi le colline e spazi nelle praterie che si aprono oltre le alture, ci perdiamo. Accade lo stesso quando mi immergo in mare aperto. Ma è sempre bello ritrovarsi e narrarsi vicendevolmente le avventure che abbiamo vissuto.
Questa mattina mi sono issata su uno scoglio per provare a scorgerti, il mio corpo privo di scheletro mi permette di cambiar forma, estroflettere gli pseudopodi (se ne inventano di termini strani gli umani!) e muovermi a mio piacimento. Non c’eri.
Tornando ai bipedi che si credono padroni del mondo, pensa, dandomi il nome hanno riconosciuto le mie capacità di cambiamento, ma nella loro stramba vita utilizzano la stessa parola per indicare persone prive d’iniziativa. Osservandoli ho capito che sono assai diversi l’uno dall’altro e a un dotto cui devo il mio nome corrisponde almeno un idiota che prende in considerazione solo la consistenza del mio corpo, la definisce “mollezza”, dimenticando l’adattabile mutevolezza, non solo esteriore, che mi permetterà di sopravvivere a tutti loro su questo pianeta anche nei secoli a venire.
Mi chiedo se questo lungo messaggio mentale ti raggiungerà, se così non fosse so che prima o poi comunque ci ritroveremo. Attendo il racconto delle tue ultime avventure. Ciao.

 

MENZIONI D’ONORE febbraio

 

I racconti di febbraio sono stati numerosi, inaspettati e di ottimo livello. Menzionarne solo tre è poeticamente ingiusto, ma a coloro che non sono stati nominati chiediamo la pazienza e la voglia di scrivere indipendentemente da giurie e classifiche. A seguire i tre racconti che ci sono rimasti dentro come una promessa fatta da piccoli. Non conta la verità, conta saperci credere da grandi.

Downunder qualcuno mi ama di Donniebrasco
Un racconto perfetto: perché custodisce nella mano di chi scrive una storia molto più grande, perché è minuziosamente piegato tra le righe come un origami di parole, perché è architettato con maestria e non perde mai quota creativa. Chapeau.

TESTOLINA di Riccardo Negri
A volte i racconti ci restituiscono la poesia dentro agli affanni della vita comune. Ci danno il coraggio di essere in carne ciò che siamo dentro ai nostri pensieri. Una piccola, grande storia raccontata come epopea del normale. Senza mai cedere a pruriti stilistici fini a se stessi.

Snake di Marica De Toro
Leggere i classici non è una norma di legge, diceva Calvino, è un percorso. Marica scrive come se venisse da tempi non nostri, come se fosse in marcia verso la letteratura. Nel suo racconto ogni parola ambisce a strisciarti dentro.

 

GIURIA POPOLARE di febbraio

 

 Un cane che salva un bambino, un gufo che salva una sorella, ma anche una storia di accettazione del diverso, di addomesticamento reciproco, e un serpente mitologico tanto immortale quanto una storia ben scritta su un foglio bianco. Questo è stato il responso della giuria popolare di febbraio che vede Laura Praderi con “Ugolino, Nicolò e le carte” portarsi a casa il premio della giuria con ben 82 like e Immacolata C. Pascale con “Non immaginavo che mi avrebbe salvata” aggiudicarsi la possibilità di partecipare alla sfida di fine anno per vincere l’occasione di trasformare la propria storia in graphic-novel. Ben 70 i like ricevuti dalla sua storia. Vicinissime al 2° posto Grazia Palmieri con il suo “Buffo Bruz supereroe” e Marica De Toro con “Snake”.  Complimenti a tutte e quattro le penne felici!

 

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