maggio 2020

 

 

Il nostro giudice d’onore Enrica Tesio ha deciso di premiare tre racconti che a suo dire potrebbero essere “intercambiabili sul podio”. Alla fine, ecco le sue medaglie!

 

 

 

Primo classificato: Matteo Abrami con Compagno Harlock
Un piccolo schizzo, tre personaggi, un’intera epoca: l’età dell’innocenza raccontata in poche battute, che poi è la forza della verità, dei pessimi piani e delle occasioni mancate che si trasformano in opportunità.

 

 

Intervista al nostro primo vincitore, il Breve Scrittrice Felice di maggio: Matteo Abrami

Matteo ormai non è più un segreto. È il nostro Baby Woody Allen di casa. Un giorno potremo dire: “L’abbiamo lanciato noi di Breve Storia Felice!”
Ogni volta colpisce nel segno con dei racconti che non sono mai ambientati nella nostra attualità, ma in un tempo ben preciso che funge da specchio in cui ci invita a guardare. E chi legge lo fa volentieri perché il suo registro è il registro della “diaspora letteraria”. Ti tuffi nei suoi scritti ed è come se ti sussurrassero: “Non avere paura, ridici sopra, perché tanto siamo tutti sulla stessa barca, scappiamo tutti da qualche cosa e passiamo il resto della vita a tornare a casa.”.
Sul suo racconto vincitore di maggio ci ha raccontato:
“Compagno Harlock nasce da uno scontro: non quello tra Harlock e i mazoniani, bensì tra ideologia e vita. Il fatto che sia ambientato alla fine degli Anni 70 (quando l’anime giapponese usciva per la prima volta nel nostro paese), a chiusura del decennio dove in Italia l’estremismo politico si è trasformato in violenza, e che i protagonisti siano dei ragazzini, innocenti persino negli errori lessicali, spero possa essere immagine delle contraddizioni che ci sono in ogni azione, in ogni idea precostituita. Anche perché, poi, la vita fa saltare ogni piano.
Ah, inoltre Compagno Harlock nasce per un altro motivo, più importante: speravo facesse ridere.”
Amen.

Compagno Harlock di Matteo Abrami

«Sei sicuro che passa di qua?»
Mario, Sandro e Luigino -nonostante il nome, il più intraprendente e alto dei tre- erano nascosti dietro un cancello condominiale. Il caldo in città era asfissiante e le strade, di conseguenza, vuote.
«Sì, sì. A quest’ora finisce di fare pianoforte».
Benché avessero 12 anni, vuoi il periodo storico, vuoi la noia estiva, i tre amici avevano un piano perfetto. O quasi.
«Oh!» si lamentò Sandro «io non so se è bella questa cosa che facciamo, non lo so mica».
«Quante volte devo convincervi?» Luigino era l’unico in piedi e parlava ai due soci con tutta la leadership che gli davano i centimetri in più: «ve l’ho detto cosa fa il mio fratellone, no? È un compagno»
«Di classe?»
«Macché classe! È un compagno e basta. Ma non la vedete la televisione? I rapimenti? Ufffffffa! Non guarderete mica i cartoni animati?»
Con un tempo di risposta pari allo zero, Sandro e Mario scossero la testa orizzontalmente.
«Ecco, allora sentite me: Beatrice tra poco esce dalla scuola di musica. Lei cammina, tranquilla, e noi ZAC!» -accompagnò il suono con un movimento fulmineo delle mani- «le andiamo addosso e PEM! La rapiamo, la obblighiamo a venire con noi. Poi la sua mamma e papà ci danno i soldi».
«Ma quanti?» chiese Mario, figlio di commercialista.
«Boh… Una scatola».
«Una scatola piena?»
«Sì».
L’eccitazione fece vibrare il cancello.
I minuti d’attesa si susseguirono fino a diventare sessanta, lasciando emergere il leggerissimo dubbio che le notizie sugli orari della scuola di musica fossero sbagliate. Dietro all’inferriate del Palazzo degli Ori –Via Merulana 17- il silenzio fu rotto dal sempre vispo Luigino:
«Facciamo che ci diamo dei nomi, tipo in codice». Il volto dei due amici si illuminò nuovamente. «Sandro, che nome da prigatista vuoi?»
«Boh».
«Dai, scegline uno!»
Ci penso qualche secondo: «Uhm… Capitan Harlock».
Il volto del leader divenne rosso d’invidia, dissimulata al meglio delle sue capacità: «Va bene, intanto non so manco chi è… Però non Capitano, sarai Compagno Harlock». Riportò lo sguardo sulla strada oltre le sbarre e saltò con un fremito: «Eccola!»
Beatrice, spartiti alla mano, camminava svelta e spensierata sul marciapiede deserto.
«Al mio tre le corriamo addosso!» disse Luigino.
«Io ho paura» dissero a turno gli altri.
«Shh! Uno… Due…» Prima di arrivare al tre, Mario e Harlock scapparono dalla parte opposta all’ultimo prigatista rimasto in azione, risparmiandogli il fiato necessario alla pronuncia dell’ultimo numero. Lui, indomito, corse verso la tanto odiata compagna di classe, che però, sai, vedendola così, mentre le si avvicinava a grandi falcate e col cuore a mille, gli faceva uno strano effetto. Trenta metri di distanza, venti, poi dieci e infine cinque: Bea lo guardò negli occhi: «Ciao». Luigino sorrise.

Medaglia d’argento: Il Mastro di chiavi di Giovanna Occhino

È il racconto scritto con più padronanza stilistica: un ricordo dalle note malinconiche. Non è pretenzioso e ha una sua crescita narrativa nonostante la misura contenuta, con un finale che chiude in bellezza la lettura.

 

 

Intervista al Secondo Classificato del contest di maggio: Giovanna Occhino

“Per assecondare la mia passione per la scrittura, mia madre mi regalò un’Olivetti portatile quando ero ancora una bambina. Scrivevo lì sopra, rischiando di perdere un dito ogni volta…”.
Il nonno di Keith Richards ha fatto qualcosa di molto simile nei confronti del nipote quando aveva solo 4 anni. Ha appoggiato la propria chitarra sul ripiano più alto del mobile in salotto, dicendogli: “Ti insegnerò a suonarla solo quando riuscirai a prenderla.”. E così il piccolo Keith ha impilato sedie e cuscini uno sopra l’altro fino a quando la chitarra non gli è caduta addosso.
Alle passioni servono ostacoli per crescere, esattamente come alle persone. Giovanna detestava le poesie da studiare a memoria a scuola, quelle auliche che non riuscivano a toccarla, fino a quando non si è imbattuta nei Poeti Maledetti e ha capito che una sola riga di parole, se scelte come se la tua vita dipendesse da loro, poteva racchiudere un mondo intero, una protesta, una provocazione, un’energia vitale induplicabili. Prova a mettere in fila le sue righe di parole, il suo sentire riparato dal paravento dello stile, fino a mettere assieme una prima raccolta che viene pubblicata su un almanacco. Un’altra poesia troverà posto in un’antologia.
Si appassiona anche ai testi teatrali, al teatro dell’assurdo; le rappresentazioni surreali la intrigano perché è tra il confine delle cose che si poggiano le emozioni più autentiche; e forse è per quello che ancor oggi, quando si siede alla scrivania per scrivere, ha bisogno che cali la sera, che sopraggiunga il confine tra un giorno e quello successivo. Perché è tra l’indefinito che ci si riesce finalmente a sentire.
Quando ha visto la foto del cancello con le tre ombre in controluce, la memoria è tornata subito indietro al cortile dell’infanzia; due ore dopo “Il mastro delle chiavi” era nato, da un misto di ricordi e fantasia intrecciati tra loro come i nodi delle trecce che portavamo da bambine. Lo stile di Giovanna è elegante ed essenziale allo stesso tempo, ha anche una dote antica che la letteratura post-moderna ha un po’ perso: è impalpabile, incorporale, perfino quando parla di un bambino che si è grattato tutta la parte destra del viso. Non senti male quando la leggi, senti voglia di fermarti un po’, di accomodarti dentro a quella bolla e vagare assieme a lei in completa libertà.
“Sono contenta se ho trasmesso qualcosa agli altri, durante il Covid mi è sembrato che tutto scivolasse su binari paralleli. Partecipare al vostro concorso, anche per il formato non impegnativo, ha rotto quell’incantesimo e ha rimosso la pigrizia creativa…”.
Giovanna sta lavorando ad un nuovo monologo teatrale, dopo aver appena finito di rappresentarne un altro. Ha anche già mandato in scena tre commedie, ma con noi preferisce parlare del drammaturgo, premio Nobel per la letteratura, Harold Pinter, oggi forse l’autore più rappresentato al mondo, benché agli esordi le sue opere furono stroncate come incomprensibili e inaccettabili dalla critica. Oppure ci racconta di Eugène Ionesco, il drammaturgo rumeno che usava la comicità paradossale per mettere in scena l’angoscia del vivere.
La nostra medaglia d’argento di maggio ha questa doppia anima trainante, come la bambina protagonista del suo racconto: sogna di volare ma ne è convinta a metà. Adora Pinter, le sue nebulose del cuore, ma impazzisce per la letteratura inglese a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento, la decadenza di un mondo raffinato che deve per forza lasciar spazio a una sostanza che spinge impetuosa dietro alla forma. Non a caso ha divorato Virginia Woolf, il suo Orlando, e i libri meno conosciuti di un’altra scrittrice del tempo, Vita Sackville-West, famosa proprio per esser stata l’amante della Woolf.
“Il suo libro Ogni passione spenta è un capolavoro! In pochi sanno che l’Orlando della Woolf è praticamente una lettera d’amore a Vita.”.
Giovanna sta leggendo un libro di psicologia al momento, ce la immaginiamo, a sera tarda, mentre una parte di lei prova a controllare la struttura del suo monologo e l’altra parte, quella “pinteresca”, prende il sopravvento…

 

IL MASTRO DI CHIAVI di Giovanna Occhino

Di solito Betta si affacciava e ci diceva che non poteva scendere.
Sua madre, da dietro, le urlava che doveva tornare a studiare; era a un solo metro di distanza, ma se l’avessimo sentita anche noi, forse ci saremmo pentiti di essere in cortile a giocare.
Lele e Ludo, i due fratelli del quarto piano, li chiamavamo “le valchirie del 15”. Biondi, i capelli alle spalle e quando si muovevano, sempre insieme, facevano tanto baccano da sembrare dei cavalli imbizzarriti.
Litigavano in continuazione.
Giulio era il più timido, aveva una madre iperprotettiva. Riusciva a scendere in cortile solo quando lei era al lavoro.
Betta faceva paura da quanto era pallida, privata costantemente del sole; mentre io ero quella più carina del gruppo, oltre a noi due non c’erano altre femmine nel palazzo.
Damiano era il figlio dei custodi. Il mastro di chiavi. Aveva quelle del portone, del bagno esterno, dello sgabuzzino e della cantina. Là sotto c’era un corridoio buio e stretto che collegava le quattro ali dei palazzi chiusi a quadrato. Noi ci infilavamo dentro con i cerini alla mano ed esploravamo il rifugio bellico con un misto di paura ed eccitazione.
Di solito non avevo problemi ad uscire, mia nonna era abbastanza permissiva, pretendeva solo che salissi per la merenda e che per nessun motivo al mondo mettessi il naso fuori dal portone. Quello era il limite dell’universo: il vecchio portone in ferro battuto che ci proteggeva dal marciapiede e dalla strada affollata. Potevi al massimo allungare la mano per toccare l’aria, che a noi pareva fosse diversa. Oltre il cancello la via era caotica, pericolosa, l’aria bruciava, i suoni erano più vividi, il mondo girava; dentro il cancello no.
Il nostro tempo era scandito solo dal pranzo e dalla cena. Scendevamo in cortile dopo pranzo, salivamo per cena.
Mio nonno, una volta, mi aveva dato un ceffone preventivo giusto per ricordarmi cosa sarebbe successo se avessi ascoltato quei quattro disgraziatelli dei miei amici.
Così noi ci accontentavamo di edificare le nostre storie in cortile, nel nostro spazio concesso.
In un angolo c’era una grotta con dentro una statua della Madonna ad altezza naturale. Sopra la grotta tutte le reliquie della nostra foga e sbadataggine. Palloni, palline, aeroplani di carta, una racchetta, macchinine, una maglietta che avevano steso male al terzo piano. Ogni giorno il cimitero dei giocattoli si arricchiva.
Una volta Lele aveva provato ad arrampicarvisi sopra e nello scivolare s’era grattato tutta la parte destra del viso. Due imprecazioni e una settimana chiuso in casa.
Al centro del cortile c’era una grossa palma, alta due piani; io abitavo al terzo, e quando mi affacciavo per vederle la testa, spesso immaginavo di poterle saltare in groppa con un balzo e domarne una foglia.
Chissà perché fossi convinta di saper volare; convinta a metà per fortuna.
Quando avevo il permesso di scendere a giocare, il rito consisteva nel fingere di essere inseguita e nel saltare i gradini a due a due attaccata al corrimano per non farmi catturare. Arrivavo al portoncino dell’edificio col cuore in gola, spezzata dalla paura.
Ludo mi fa notare che è tardi mentre, piegato sulle ginocchia, guarda oltre le inferiate, su quella strada che dopo tutto, passati gli anni, non è cambiata se non per qualche negozio nuovo.
Lele si alza e sospira: “Andiamo?!”.
“Andiamo” – rispondo.
Sono passati quindici anni dall’ultima volta che abbiamo visto Damiano.
Era uscito a recuperare il pallone.
Ogni anno nello stesso giorno torniamo al cancello per vedere se l’ha trovato.

Medaglia di bronzo: Tre di Ste
Una parabola e una confessione, capace di trattare con ironia anche un argomento forte come il disturbo mentale. La foto che ispira il racconto non è pretestuosa, ma è ben integrata grazie a una lettura allegorica. Evviva i finali che aprono a un nuovo inizio!

Intervista alla Terza Classificata del contest di maggio: Ste

Ste ormai ci ha abituato ai suoi mondi surreali e domestici allo stesso tempo, come se davanti ad ogni traccia si infilasse un paio di scarpette rosse e si facesse portare nel paese delle meraviglie. Non sceglie dove andare, lascia che sia l’ispirazione a farlo, e sa attenderla con molta più pazienza della media.
“Allora appena ho visto la foto non ho pensato a tre persone, ho sempre visto la stessa persona ma in tre posizioni diverse. E così ho cominciato a pensare a come potessero relazionarsi tra loro…a come tirar fuori tre caratteri, tre storie che poi potessero unirsi alla fine. E quel tre continuava a stare nei miei pensieri, fino a quando non ho cominciato a scrivere. Mi sono divertita così tanto a continuare a ripeterlo come un’ossessione che poi l’ossessione è diventata il racconto stesso.
È stato divertente anche il dopo, a dire il vero, quando i miei amici dopo aver letto il racconto mi scrivevano messaggi in cui il tre compariva ovunque…tre faccine, tre parole, frasi in cui il tre era ripetuto tantissime volte… È una bella sensazione quando ciò che scrivi prende vita, quando chi legge entra dentro alla tua storia e ci mette del proprio!”.

TRE di Ste

Lo so, che ci volete fare, sono ossessionato dal numero tre.
D’altra parte nella mia vita è un numero che compare spesso.
Mi chiamo Carlo Cattaneo, figlio di Camilla Cirillo di Catania e di Carmine da Cuneo.
Sono il terzo di tre fratelli. Nato il 3 di dicembre. All’asilo, nella classe azzurra, non so quanto casualmente, c’erano altri due Carlo assieme a me; la maestra Barbara ci aveva così rinominato: Carlo 1, Carlo 2 e Carlo 3. Indovinate qual ero io? Esatto!
Alle elementari mi ricordo che cambiammo casa, andammo in via Ciclamini al numero 3, terzo piano scala C.
Alle medie, sezione C, rimasi sempre al terzo banco, per tutti e tre gli anni.
La terza ragazza che provai a baciare fu quella che mi ricambiò senza rimbalzarmi.
Intendo che mi baciò proprio con la lingua, in una cantina del mio palazzo, come dimenticare quei tre minuti di saliva!
Ci fidanzammo e furono tre mesi bellissimi, poi lei si fidanzò con uno di tre anni più grande.
Alle superiori scelsi un istituto tecnico, cavarmela in tre anni mi sembrava una scelta che calzasse perfettamente con la mia poca voglia di studiare. Il fatto che fosse a sole tre fermate di autobus dalla mia abitazione fu un buon motivo per non avere alcun dubbio.
Fu proprio in quegli anni che cominciai a farci caso, quel numero lo cercavo, faceva parte dei miei rituali mattutini: colazione con tre biscotti, tre cucchiaini di zucchero nel caffè, da bere rigorosamente in tre sorsi.
Faceva parte anche della mia giornata scolastica: salire le scale fino alla mia classe facendo i gradini di corsa a tre a tre, preparare il banco prima che iniziasse la lezione con tre penne, tre fogli e tre libri.
Prima di andare a dormire, la sera dovevo entrare e uscire dalla mia stanza per almeno tre volte, accendere e spegnere la luce e fare tre volte il giro del letto.
Quelle azioni erano le mie strategie magiche che mi difendevano da chissà quali mostri o catastrofi.
Ma alla fine i rituali erano diventati talmente tanti da rendermi la vita complicata, per fare qualsiasi cosa impiegavo il triplo del tempo. Faticoso, molto faticoso. Ero in costante lotta, come se fossi perennemente accovacciato davanti a un cancello a discutere con me stesso. Una parte di me voleva liberarsi e uscire da quella gabbia, mentre l’altra non riusciva a non sentire la voce del tre che in piedi, appoggiato al muro, con noncuranza buttava lì un: “Sei sicuro di volermi ignorare? E se ti succede qualcosa?”. E aveva ragione, lo ascoltavo. Lo ascoltavo sempre. Per anni fu il mio carceriere, il mio rapitore, il mio supplizio, la mia tana, la mia salvezza. Sino a quando non mi innamorai. Chissà se la amai subito perché la sua scrivania era a tre passi dalla mia, o perché sulla scrivania aveva la foto dei suoi tre gatti, o forse solo perché si chiamava Mia.
Per lei feci il grande passo.
Andai da uno psicologo; il fatto che nel suo numero di telefono non comparisse neanche un tre mi diede coraggio, era già un passo verso la liberazione. Purtroppo quando andai da lui, mi accorsi che nella sala d’aspetto c’erano tre quadri e scappai. Ne provai altri e solo il terzo fu quello giusto. Mi diagnosticò un disturbo ossessivo compulsivo detto anche DOC. Dentro di me esultai dalla gioia: il mio problema era racchiuso in tre lettere.
Mi aiutò molto e lavorai sulle mie ossessioni con grande impegno.
Ed ora eccomi qui. Quest’anno compirò 33 anni, e allora voglio cercare quel cancello, e aprirlo e uscire, senza paura, perché non sarò solo, con me ci sarà Mia e la gioia di sapere che presto saremo in tre.

MENZIONI D’ONORE

Il cancello di Luce di Virginia Coral
Dar vita a un mondo intero in così poco spazio è come racchiudere un profumo d’amore in una boccetta minuscola dopo averlo lasciato sul polso del mondo. La scrittura di Virginia Coral è un’alchimia, allunga gli attimi.

 

 

Déjà-vu di Andrea Finizio
Nessuno ha l’ardire di citare se stesso, il concorso letterario a cui partecipa e un racconto precedentemente inviato allo stesso concorso e riuscire a far funzionare il tutto. Da qualche parte John Malkovich sorride.

 

 

Quattro anni di Stefano Palumbo
Stefano potrebbe tenere corsi di flash-fiction. Il racconto lampo serve a sperimentare nuovi stili, nuovi mood, nuovi argomenti, nuove tecniche senza mai perdere il senso del compiuto. Mission accomplished!

 

 

GIURIA POPOLARE DI MAGGIO

Questo mese la gara per il premio della giuria popolare è stata una faccenda a due. Dopo mesi e mesi di tentativi, il racconto “PENSIERI” di Giovanna Adelaide Busacca si è aggiudicata il 1° posto con 60 like. La sua diretta inseguitrice Anna Maria Maffezzoli, con i racconto “La Festa Indiana” si è arrestata a 37.

 

Partecipa!

Iscriviti e partecipa!

La partecipazione richiede un pagamento di 10€ e la registrazione al sito, che la prima volta avverrà in fase di checkout.

Share This