agosto settembre 2020

Podio del Contest di agosto-settembre

 

Ecco i vincitori scelti dalla Redazione di Exlibris20 per il nostro concorso di agosto e settembre.
NB: racconti con doppio finale.

 

 

1° classificato: Agnese di Elena Barsottini

 

Per la scrittura fluida ma non scontata, il senso di colpa del marito che si evince dal 2° finale e gli fa compiere una scelta alla “Hitchcock”. Le infedeltà anche solo immaginate rendono sempre bene in letteratura, non quanto i bambini, ma rendono.

 

Intervista alla nostra prima vincitore, la Breve Scrittrice Felice di agosto-settembre: Agnese di Elena Barsottini

Elena ha il potere di scrivere storie senza tempo, come se non fosse importante il quando ma solo il chi e il come. E i suoi come sono dettagli scelti con la cura con cui si annaffiano i fiori. I suoi personaggi sono vividi perché Elena regala loro un’anima prima di una storia; si svelano a noi piano come le persone vere e si accomodano come un ricordo nell’angolo della nostra mente. Alzi la mano chi non vorrebbe incontrarla in carne ed ossa la sua Agnese, magari proprio ad un matrimonio, con una scarpa rossa in mano e a piedi nudi…
“Leggo sempre la traccia proposta da BSF per il racconto del mese. L’idea del doppio finale e della sliding door narrativa mi sono sembrate subito stimolanti. Solo in un secondo momento ho capito che il racconto doveva girare intorno al tema dell’autostop, un argomento del quale non sapevo bene cosa scrivere.
Pensando alle automobili è riaffiorato alla mente il racconto di un fatto realmente accaduto tanti anni fa: un uomo si era trovato a buttare dal finestrino la scarpa della suocera convinto che fosse rimasta lì dalla sera prima, quando il cugino gli aveva chiesto in prestito l’auto per trascorrere la serata fuori in compagnia. L’amico che mi raccontò la storia è un bravissimo narratore e infatti l’ho conservata tra i miei ricordi divertenti.
Mi è venuto spontaneo costruire un racconto intorno a questo ricordo perché trovo che la realtà stimoli sempre la mia fantasia. Pensando quindi al connubio donne e motori si è affacciato alla mia mente Giacomo Puccini, un mio vicino di casa che ha subito ispirato la figura del protagonista della storia suggerendomi anche un’ambientazione che ben conosco.
Così “Agnese” è nata intorno ad una scarpa buttata dal finestrino, alla presenza di due donne e ad un uomo a bordo della sua auto d’epoca.
Una volta chiarito cosa volevo raccontare, ho scritto il racconto in un pomeriggio.”.
Un grandissimo storyteller italiano un giorno ci ha detto: “Mai rovinare una storia inventata con la realtà.”.
Elena sembra saper fare l’esatto opposto.
Tra gli altri racconti che ha apprezzato molto questo mese ci sono “A spasso con Stevie” e “Midday in Paris”, dove la linea sottile tra sogno e verità non è importante, ciò che conta è l’incantesimo tra autore e lettore nel crederci.

 

Agnese di Elena Barsottini

Si voltò all’improvviso richiamata dal brrrummbrum di un motore. Era vestita di bianco e in mano teneva, per un laccetto, le sue belle scarpe nuove, lucide e nere. Camminava a piedi nudi sulla strada sterrata, ma si fermò e allora si voltò, schermando il sole con una mano, per meglio vedere l’automobile che si stava avvicinando. Teneva già alto il braccio destro, pronto a muoversi in un cenno.
“Buongiorno”, disse l’uomo al volante, accostandosi alla signora.
“Buongiorno a lei”, sorrise sollevata la donna. A ben guardarla, non era una signora. Era poco più che una ragazza elegantemente vestita e tremendamente accaldata.
“Cosa ci fa tutta sola qua al caldo? Posso offrirle un passaggio?”
“Oh, è molto gentile, gliene sono grata. Sto facendo tardi, c’è una festa… si sposa mia cugina. Dovevano venirmi a prendere, ma ieri sera… insomma, mi sono avviata a piedi…”, disse mostrando all’uomo le scarpe col laccetto, mentre saliva in macchina a piedi nudi.
“Vado al lago”, continuò. “Fanno lì la festa. Mia cugina e il suo futuro marito, intendo. Certo arriverò un po’ in disordine”, disse passandosi una mano sul collo sudato.
“Potrebbe davvero portarmi al lago? È scomodo per lei?”
“Per niente, anzi. È là che vado”, ribadì l’uomo. Ripartirono. La ragazza guardava avanti, verso la strada. Si era azzittita e ora sorrideva un po’ imbarazzata. L’uomo era invece concentrato sulla strana passeggera salita a bordo della sua bella macchina francese.
“Quindi va ad una festa di matrimonio”, incalzò sicuro che, dandole l’occasione, lei avrebbe ripreso a parlare loquacemente.
“Sì, insomma…Teresa, mia cugina… sì, si sposerà presto”, sorrise la ragazza annuendo. Portava un cappello a cloche viola che le incorniciava il viso e le metteva in risalto lo sguardo, limpido e diretto. “Ha due anni meno di me”, puntualizzò annuendo di nuovo. “È più giovane e si è già sistemata”. Fissava la strada davanti a sé. L’uomo sorrideva del suo imbarazzo.
“Teresa è sua cugina. E lei? Come si chiama?”
“Oh, mi scusi, Agnese…molto piacere”, disse allungando la mano verso di lui.
“Giacomo. Il piacere è tutto mio.”
“Quant’è bello, qua: la pineta, l’aria di mare…”, riprese guardandosi attorno e distendendo le gambe. Aveva un modo gentile, timido e coinvolgente di viaggiarle vicino e così, pian piano, Giacomo si rese conto che gli appariva bella. Inizialmente le era sembrata una donna di mezza età elegantemente vestita, ma poi, osservandola, le era apparsa sotto un’altra luce. Non poteva avere più di venticinque anni e i suoi occhi, che inizialmente gli erano sembrati scuri, erano invece verdi e belli in maniera profonda, ma non appariscente. Si muoveva in un modo strano, con gesti che, era sicuro appartenessero solo a lei.
La strada si aprì di fronte al lago.
“Eccoci”, disse l’uomo. “Dove sarà questa festa?”
“Laggiù, quel locale con la terrazza sull’acqua. Proprio là. Ma non si scomodi. Ha già fatto molto per me. Posso scendere anche qua.”
“La accompagno volentieri. È un attimo.” e si avvicinò all’ingresso del locale.
“Agnese!”, una bambina corse incontro alla ragazza gettando sguardi curiosi all’automobile color crema dalla quale stava scendendo.
“Ciao Lina, come sei bella!”, abbracciò la bambina voltandosi verso Giacomo e sorrise ancora una volta. “Non so davvero come ringraziarla, mi ha risparmiato una bella fatica e i rimproveri che si riservano ai ritardatari.”
“Il piacere è stato tutto mio”, disse porgendo la mano ad Agnese e trattenendo a lungo la stretta. Lei rimase a guardarlo in silenzio.
“Quando passa da queste parti mi trova là”, riprese l’uomo indicando una villa a pochi passi dal lago.
“Oh…”, si meravigliò Agnese. “Accipicchia, abita lì?”, chiese riavendosi e osservando la casa proprio mentre il cancello si stava aprendo. Ne uscì una donna di mezza età che anche Giacomo vide. Senza indugio ingranò la prima e ripartì.
“La aspetto, arrivederci”, scappò via per fermarsi pochi metri più avanti, di fronte al cancello di casa sua. Fece salire la donna, allungandole un bacio sulla guancia mentre Agnese, rimasta a guardare, lo vide da lontano voltarsi verso di lei e sorriderle. Sorrise anche lei, un po’ imbarazzata mentre si avviava alla festa. Non era ancora ripartito che sua moglie prese a discorrere come un fiume in piena. Ragionava di cose sue, i ricevimenti, i vestiti nuovi, quello che facevano le persone che aveva conosciuto, le donne, gli uomini, certe libertà che certa gente si prendeva in certi momenti. Lui, ancora, non era riuscito a seguire ciò che gli stava dicendo perché il suo pensiero si era fermato al momento in cui Agnese era scesa dall’auto. La moglie raccontava di ciò che aveva fatto la sua migliore amica, che non se lo sarebbe mai aspettato da lei, mai davvero e di quell’altra che ahhh, se non lo avessi visto non ci avrei creduto. E pompava, si infervorava, inorridiva di fronte a quei comportamenti così impudenti. Giacomo non la ascoltava, per niente, ma alcune parole della sua arringa gli entravano nelle orecchie e gli facevano provare una colpa felice, il gusto di una trasgressione immaginata, ma viva e vera.
“Che sguardi, che intesa tra di loro”, diceva lei mentre lui vedeva occhi verdi sotto una cloche viola. Perso nei suoi pensieri lo sguardo gli cadde su qualcosa di scuro che giaceva ai piedi della donna. Guardò meglio. Era una scarpa. Nera. Lucida. Col laccetto. La scarpa di Agnese. Fu assalito dalla certezza che se sua moglie avesse trovato una scarpa da donna ai suoi piedi, niente lo avrebbe salvato dalla sua furia gelosa, così colse l’attimo in cui la donna, parlando, si era girata per meglio vedere dei passanti. Lesto lesto si allungò verso la scarpa. La prese, la gettò in corsa nella pineta e tornò a mettere le mani in posizione di guida sul volante. Guardando la strada, sorrise mentre pensava ad Agnese, giunta alla festa con una scarpa sola.

 

Arrivati, parcheggiarono. Giacomo scese. Sua moglie invece indugiava seduta, guardandosi intorno, in basso, a destra, a sinistra, inquieta. “Giacomo, ma…ho una scarpa sola”. Lui la guardò e rabbrividì.

 

 

2° classificato: Jack di Groucho

Le atmosfere alla Into the wild, il racconto in prima persona e l’immagine dell’uomo che sfuma le sue sembianze nel licantropo, che non si sa se era vero o solo frutto della sua immaginazione, funzionano. Unica nota: nei dialoghi non occorre sempre ripetere ossessivamente il nome dell’interlocutore o se ciò avviene dovrebbe essere per uno specifico motivo.

 

 

Intervista alla Secondo Classificato del contest di agosto-settembre: Groucho

Daniele, alias Groucho, è di Bolzano, e non vorrebbe essere nato da nessun’altra parte del mondo.
“Neppure nel Montana?”, chiediamo. Ride con la voce baritonale dell’attore teatrale.
“No, ti prego, non dirmi che sei di quelli che mentre leggono perdono tempo a rintracciare pezzi di vita dell’autore nelle pagine? … Così si perde il bello di una storia, la sua unicità.”.
Lo rassicuriamo. Il momento in cui ci si distanzia da se stessi nelle storie che si scrivono è il momento in cui lo scrittore in noi inizia a prendere forma. Fino a quando ci si appiattisce contro la schiena di ciò che si è scritto siamo ancora nel territorio grigio delle “prove generali”.
Ci dà ragione. Fa il falegname da 14 anni, anche se sognava una vita molto più artistica.
“Ho iniziato dopo il liceo perché mio nonno lo faceva, mio padre lo faceva e tutta la mia famiglia si aspettava che lo facessi… Davo una mano in officina nel doposcuola quando avevo solo 13 anni. Mi piace il legno, mi piace usare le mani, ma a fine giornata ho bisogno di scalpellare anche con la fantasia, di giocare con le cose che non puoi toccare. Mi verso da bere e poi mi metto a immaginare storie. Mi sarei visto bene come scrittore per l’infanzia.”.
La scrittura di Groucho è asciutta e densa allo stesso tempo, in parte introspettiva in parte carnale, e il mix è ipnotico, adescatore. A volte ti senti quasi il proverbiale asino con la carota.
Daniele ride ancora, ma questa volta di gusto.
“Mi piace come immagine. Ci ho messo cinque notti a scriverlo questo racconto perché ad ogni riga cancellavo tutto e ricominciavo da capo. Forza Daniele, puoi fare meglio, mi dicevo. Io sono un lettore esigentissimo. Se mi annoi con una sola pagina di troppo, lascio perdere. Così mi sono imposto di provare a tenere i lettori per le palle… La carota è un’immagine migliore, devo ammetterlo, perché fa pensare che un po’ non vi prendo troppo sul serio.”.
Gli chiediamo del alias Groucho, se ha a che fare con un bisogno di sdrammatizzare.
“No, a quello ci pensa già la vita. E qui a Bolzano ci pensa la gente. Al sud pensano tutti di essere dei comici, ma se vivi tra le montagne è il clima a prenderti per il culo e tu cresci con un sarcasmo tutto tuo e con l’idea di non contare molto nell’equilibrio del mondo. Per questo non vorrei essere nato da nessun’altra parte, perché Bolzano mi ha reso civile e incivile solo quando ne vale davvero la pena. Non quando è più comodo.”.
Il suo racconto è permeato da questa visione, gioiosamente sul ciglio di mamma natura e delle sue inderogabili leggi, gli uomini figli alla costante ricerca di impressionarla. Groucho invece gli serve per scalpellare le sue idee, per guardare alle cose dal lato meno prevedibile, per fare a pezzi le proprie convinzioni e ricostruirle come se fossero lego.
Facciamo outing e gli svegliamo la frase che ci è piaciuta di più nel suo racconto, il colpo di scalpello che non ci attendevamo: “La natura è fatta per gli animali, Simon, gli uomini la amano solo quando non hanno ancora fatto pace con loro stessi.”.
Sospira. Daniele ha una parlantina flemmatica con cui ti accerchia, ma questa volta tace.
“Bingo. Se cercavi un pezzetto di me lì dentro quello è Daniele/Groucho al suo meglio. O al suo peggio, dipende dai punti di vista.”.
Forse ha ragione, forse è meglio che non sia nato in un altro posto; quando le persone appartengono visceralmente a un preciso angolo di mondo sanno andare ovunque, soprattutto con la mente. Gli ricordiamo che Harrison Ford aveva 30 anni come lui quando si è dato al cinema, e prima curiosamente faceva il falegname pure lui. “Ma fare l’attore presuppone più attitudine che studio mentre scrivere credo sia l’esatto opposto. Io credo nell’autodidattismo, ma non nelle passioni. Quelle non sono mai abbastanza. Hendrix era autodidatta si è auto-educato, io amo scrivere, scrivo da quando ho 8/9 anni, ma non ho mai provato ad educarmi in scrittura. Avrei dovuto scrivere per qualche giornale locale, o su qualche rivista, la nostra cameretta non è mai abbastanza.”.
Daniele è una lama, da un lato taglia, dall’altro sa come non far male. Legge tanto, ma non tantissimo e non finisce un sacco delle cose che inizia.
“Tutto ciò che va di moda io lo trovo vomitevole, dal Codice Da Vinci alla Verità sul caso Harry Quebert. Farei prima a dirti i libri che ho finito.”.

 

Jack di Groucho

“Dove devi andare ragazzo?”
“Montana.”
“Richiamo della foresta eh… Come ti capisco. Sali a bordo, va, che ci andiamo assieme.”
“Grazie! Intanto, piacere. Io sono Simon.”
“Jack, piacere mio.”
Avrà avuto la mia età, muscoloso, castano scuro, con quella carnagione che hanno i boscaioli a furia di lavorare sotto al sole. Una di quelle facce con cui ti viene subito voglia di farti una birra al bancone.
Guidava questo truck pieno di legname e sembrava felice, che a 20 anni non è cosa da poco.
Io avevo appena lasciato l’università a metà, in cerca della “mia” famosa strada, quella che dovrebbero andare a scovare tutti i giovani adulti.
“Cambio di vita?”
“Già. Ho mollato l’università. Non faceva per me.”
“Come mai?”
“Mi sembrava ci appiattisse tutti quanti contro una parete e ci incollasse un numero dietro la schiena… dopo averci appiccicato certe idee nella testa.”
“Hai reso l’idea Simon.”
“Tu?”
“Boscaiolo e lupo solitario. Il meglio di entrambi i mondi.”
“Dove ci si iscrive?”
“Ah, fidati, Simon, ci devi essere nato per questa vita, non c’è corso che tenga. E la cosa più importante è che non hai scelta. È la tua natura a scegliere per te.”
Mi aveva già conquistato. Sembrava uno che aveva già vissuto più vite e conosceva tutte le uscite di emergenza.
“Vedrai, quando la imboccherai, la strada giusta, la riconoscerai subito. Poi potrai abbandonarla, riprenderla, accantonarla, ma ti sentirai a casa solo su quel tracciato…”
“Quanti anni hai Jack?”
“Ah…A volte me ne sento 200, altre volte 20… “
Avevamo attraversato vallate scortate dai monti, distese verdi bagnate da ruscelli impetuosi, io e Jack gli unici due esseri umani alla conquista della propria libertà.
“L’Idaho è come la donna dei sogni.” – mi aveva detto – “Non vedi l’ora di rivederla, non vedi l’ora di non pensare più a lei.”
“E il Montana, Jack… Com’è il Montana?”
“Il Montana è una mamma, Simon. Ti insegna a diventare un uomo.”
Bevevo ogni sua parola come se fosse bourbon: un po’ per trovare la pace, un po’ per fare tabula rasa del prima.”
Quando il sole si colorò di rosso cambiò espressione.
“Tutto bene Jack?”
“Simon devo avvisarti… Non guido mai la notte. Se vuoi dormire in auto per me va bene, altrimenti ti posso lasciare in un motel quasi al confine e ti passo a prendere domani mattina per l’ultimo tratto di strada.”
“Il sedile della tua auto andrà benissimo.”
Quando era calato il buio aveva parcheggiato il suo truck vicino ad un laghetto che rifletteva la luna e poi era scappato nel bosco.
“Ci vediamo domani Simon. Io vado a cercare Cappuccetto Rosso.”
Aveva gli occhi diversi, sembravano due pugnali, e aveva fretta. Mentre Jack fino a quel momento mi era sembrato immune allo scorrere del tempo. Era andato via da 5 minuti e mi mancava la sua presenza. La sua semplice presenza che riusciva a sussurrarmi che tutto sarebbe andato bene.
Testai la temperatura dell’acqua, contai le stelle; quando capii che non sarebbe tornato, salii in macchina e provai a dormire.
Il sonno mi passò a prendere come aveva fatto Jack, all’improvviso.  
Mi risvegliò l’odore prima del rumore dei passi. Un odore inteso di carne e cielo.  
Aprii gli occhi di quel poco per intravederlo: un enorme lupo eretto su due zampe che si infilava dentro a dei vestiti umani.
Chiusi gli occhi e provai a rimanere immobile. Lo sentii aprire la portiera e reclinare lo schienale. Odorava ancora, ma più di vento che di carne.
Mi riaddormentai e quando riaprii gli occhi il sole era già alto.
“Buongiorno. Tra due ore siamo nel Montana.”
“Ciao. Com’era Cappuccetto?”
“Piccola.”
Lo guardai cercando il profilo del lupo dentro al suo, ma era scomparso, c’era solo Jack.
“Tu invece hai dormito bene, Simon?”
“Benissimo. Credo di aver addirittura sognato.”
Sorrise, e giurerei che uno dei due canini fosse sporco di sangue.

 

Al mio risveglio Jack non c’era. Mi domandai se era stato tutto un sogno o se mi conveniva scappare. La mia vita, a sole 48 ore dal mio abbandono degli studi, era già nettamente più entusiasmante.
Avevo attraversato l’Idaho con un licantropo e dormito sotto le stelle ai piedi di un lago argentato.
Sbucò dal bosco con una lepre sanguinante nelle mani.
“Pronto per il tuo primo barbecue da avventuriero? Aiutami a scuoiare questa dolcezza.”
Non avevo mai scuoiato una lepre, né fatto un falò con dei legni o affumicato brandelli di carne fresca. Sono un semplice ragazzo di città, io.
“È la carne più saporita che abbia mai mangiato, Jack. Grazie.”
“Perché hai scelto il Montana?”
“Perché vengo da New York. Volevo uscire dalla mia comfort zone, capire se la natura mi piace per davvero o solo in fotografia.”
“La natura è fatta per gli animali, Simon, gli uomini la amano solo quando non hanno ancora fatto pace con loro stessi.”
“E tu Jack? Tu mi sembri in pace con te stesso, eppure ci stai bene tra i boschi…”
“Non tutto ha un senso, amico mio. Il Montana te lo insegnerà meglio di ogni altro posto.”
Dopo aver mangiato avevamo fatto il bagno nel lago e ci eravamo asciugati al sole.
“Credi che mi piacerà il Montana, Jack?”
“Non lo so, io mi chiedo sempre se piacerò ad un posto, non viceversa.”
Avrei potuto parlare di tutto con lui; di tutto tranne che della notte precedente. Invece restammo in silenzio per il resto del viaggio.
“Sei arrivato, avventuriero. Benvenuto in Montana.”
“Grazie, Jack. Tu che fai, torni indietro?”
“Indietro? Io sono appena tornato a casa, Simon. Ci si vede in giro, avventuriero. Buona fortuna.”
Sono rimasto in Montana per 5 anni e non l’ho mai più rincontrato.

 

 

3° classificato: Midday in Paris di Edo 78

È surreale e malinconico. La mancanza della mamma è attraversata da una voce narrante pulita e lineare. Un racconto sul potere dell’amore che fa vedere uomini-cani al volante e finestrini fatti di panna che possono essere leccati, sullo sfondo di una Senna che è tutta una pennellata di colori, gli stessi che hanno il potere di far continuare quel legame unico. Madre-figlio.

Intervista al Terzo Classificato del contest di agosto-settembre: Edo 78

Edoardo è un insegnante di liceo.  Insegna lettere, e ne scrive tante.
“Lavoro a Torino, ma tutta la mia famiglia e la mia fidanzata, oltre ai miei amici, stanno al sud. Non sono uno che ama le telefonate lunghe, mentre mi piace scrivere perché mi sembra che su un foglio bianco le parole acquistino potere, oltre a diventare eterne come le relazioni più importati della nostra vita. Così scrivo lettere ogni settimana, a mio padre, a mia sorella, alla mia fidanzata e al mio migliore amico. Prima mi chiamavano al telefono per rispondermi, adesso si sono messi a scrivere lettere anche loro, come se fossimo nei primi del 900. La casella della posta, oggi, per tutti è il posto dove ricevere le bollette, per me è il luogo del cuore.”.
Un po’ ce lo immaginavamo così Edo 78, come la versione maschile dell’Amélie cinematografica di Jean-Pierre Jeunet. Il suo racconto è una favola surreale che chiede ai più grandi di continuare a sognare e ai più piccoli di aiutarli a farlo. E poi parla di legami, quei fili invisibili che spezziamo, calpestiamo o a cui ci aggrappiamo, senza fare rumore, nella vita di tutti i giorni.
“Hai scelto Parigi per un motivo preciso?”.
“Sì. Piaceva tanto a mia madre. Anch’io sono rimasto orfano da ragazzino, questo racconto l’ho dedicato un po’ a me stesso e un po’ a lei. Come se potessi ancora scriverle una lettera e inviarla in paradiso. Mi ha fatto stare bene scriverlo e sono stato felicissimo quando ho scoperto di essere tra i vincitori. È stupido, ma oggi l’ho perfino detto in classe. Grande prof!, hanno esultato, e io ho avuto l’opportunità di fare una lezione su retorica e autenticità.”.
Ci ha impiegato poco più di 40 minuti a scrivere il suo “Midday in Paris”, l’ha stampato e l’ha infilato nelle lettere della settimana. Sta ancora attendendo la risposta di sua sorella e di suo padre.
“Non parliamo spesso di mamma, il vostro concorso ha scoperchiato il Vaso di Pandora. Evidentemente avevo bisogno di poterla ancora toccare. Sono rimasto lì con quelle pagine stampate tra le mani e un po’ ho invidiato François.”.
Edo 78 ci aveva commosso con il suo racconto e ci commuove di nuovo al telefono, con quel candore un po’ fuori tempo massimo che facciamo fatica ad accettare negli altri e ancor di più in noi stessi. Gli chiediamo se scriva solo lettere o anche altro. Edoardo scriveva tanto da ragazzo, anzi, sognava di fare lo scrittore, ma quando poi si è trattato di cercare un lavoro ha optato per l’insegnamento; “volevo stare in mezzo ai bambini”, ci ha detto, “mi piacciono da sempre, da quando mi occupavo di mia sorella che ha 6 anni in meno di me”.
Per puro caso si è imbattuto nella copertina di un racconto in concorso sulla pagina Instagram di BSF e così ha deciso di partecipare a sua volta. Nella sua prima flash-fiction Bob Marley era ancora vivo e si divertiva a fingersi pescatore di marlin e ad insegnare a suo nipote i segreti della vita.
“Il registro era completamente diverso, ma il rapporto adulto/bambino è il perno attorno a cui girava il finale…”.
“Già, ci dev’essere sempre un bambino in tutto ciò che scrivo. Forse sono io da piccolo che torno sulla carta…Non so… Forse è il mio lavoro che mi riporta lì, a quello scambio tra piccoli e grandi che secondo me mette tutto in prospettiva.”.
Edo 78 deve correggere i temi, ci ringrazia emozionato e ci saluta di corsa.
“Ve l’ho detto non sono per le telefonate lunghe…”.
A noi non dispiace, lo preferiamo chino su un foglio di carta a scrivere lettere a mano in un mondo che spesso va così veloce da sembrare un treno in corsa che appiattisce luoghi e punti di vista.

 

Midday in Paris di Edo 78

Quando un bambino sogna davvero una cosa, quel sogno diventa realtà.
François aveva perso sua mamma il giorno di Natale. Non c’è niente di più terribile. Il giorno più felice per il resto del mondo diventa il giorno peggiore per te.
Sognava ogni notte di rivederla, di andare a spasso lungo la Senna mano per mano. Sua mamma era pittrice e adorava passeggiare tra le bancarelle lungo il fiume per scovare qualche pittore in erba e aiutarlo a sfondare. Quando aveva venticinque anni qualcuno aveva fatto lo stesso con lei.
“François, cavoletto mio, ti piace questo quadro di Notre Dame, o preferisci i cavalli che corrono?”
Lo interpellava sempre, giocavano ad essere due anziani critici d’arte.
“Non saprei, forse le pennellate sono troppo ciccione…”
“Cavoletto, si dice dense…”
Gli comprava sempre qualcosa, un acquarello, un disegno a china, ciò che lo colpiva di più.
François non aveva lo stesso rapporto con suo padre, era un uomo molto serio, che non giocava mai.
“Papà andiamo sulla Senna a giocare ai critici d’arte?”
“E che gioco è?”
“Il gioco che facevo sempre con mamma.”
“Non ci so giocare François.”
“Ti insegno io. Dai, papà, fuori c’è il sole, è la giornata perfetta!”
“Non insistere François. Devo finire una pratica.”
Non era un uomo cattivo, tutt’altro, stava solo facendo i conti con dolore e lavoro e un figlio da crescere senza una madre.
François decise di andarci da solo. Non conosceva la strada ma poteva fare l’autostop come aveva visto in quel cartone alla TV.
Uscì senza far rumore e si incamminò per strada. Quando vide una macchina rossa con un enorme cono gelato sul tettuccio, alzò il pollice.
“Francois! Cavoletto, dove devi andare?!”
Al volante c’era un enorme cane parlante con indosso una divisa dorata.
“Buongiorno Signor Cane, ci conosciamo già?”
“Ma certo, cavoletto, ero vicino a te quando sei nato.”
“Mia mamma mi chiamava cavoletto…”
“Lo so. L’ho vista ieri e mi ha detto di salutarti.”
“Non è vero, mia mamma è morta.”
“Cavoletto, questa macchina viaggia nel tempo. Se vuoi l’andiamo a trovare.”
François si sentiva confuso. E anche impaurito. Forse doveva tornare a casa da papà.
“Solo 5 minuti.” – rispose.
“Come vuoi. Ma ricorda, cavoletto, il tempo vola quando si è felici.”
François salì sull’auto, profumava di caramelle e torta.
“Se ti va, puoi leccare i finestrini, sono di panna montata.”
François si fece una scorpacciata.
“Mi scusi Signor Cane, le ho mangiato tutto il finestrino.”
“Nessun problema, cavoletto, oggi c’è il sole, non avremo freddo.”
Parigi era bellissima, piena di fiori, gelaterie, negozi di giocattoli e sulla punta della Tour Eiffel c’era un’enorme palla di gelato al cioccolato che colava sulla gente che scattava le foto da terra.
François rideva di gusto, era il giro in auto più divertente della sua vita.
Vide la Senna e tutti i pittori che esponevano i loro quadri. Sorrise beato.
“François, tua mamma è lì da qualche parte. Siamo tornati indietro nel tempo per cui è un po’ più giovane, ma sono certo che la riconoscerai.”
“Grazie Signor Cane!”
Si incamminò tra gli espositori con il cuore gonfio di emozione. La vide quasi subito. Era bellissima anche da giovane, avrà avuto 18, 19 anni e i capelli lunghi lunghi sciolti lungo la schiena.
“Mamma!”
“Cavoletto! Che ci fai qui?”
“Sono venuto a controllare i tuoi dipinti. Fammi vedere… Brava, pennellate decisamente dense.”
“Grazie tesoro mio! Tieni, l’ho dipinto per te. È la Senna, riva sinistra, quella che piace di più a noi due.”
“È meraviglioso, mamma! Tu stai bene adesso?”
“Benissimo, cavoletto. Posso dipingere tutto il giorno e adesso sai anche come venirmi a trovare. Non è perfetto?!”
“È perfettissimo!”
“Cavoletto… Perfettissimo non si dice. Stai facendo i compiti?”
“Non tanto. Papà non ha tempo di farli con me così guardo di più la tele.”
“Cavoletto mio, sei un pasticcione.”
“Non sono un pasticcione!”
“Ah, no? E allora perché ti esce la panna dalle orecchie come se fossi un enorme bignè-bambino?!!!”
Si mise a dargli baci sul collo e sulle orecchie. Gli faceva il solletico. Scoppiarono a ridere assieme. Ridevano così tanto che si misero a piangere di gioia.
“François, dobbiamo andare. Sono passati i 5 minuti.”
Era Signor Cane.
“Vai, cavoletto mio, e torna a trovarmi presto!”
Gli diede un grosso bacio dolce sulle labbra e gli allungò il suo quadro.
“François, svegliati, non volevi andare sulla Senna? Se vuoi possiamo farci un salto, ma un’oretta soltanto.”
“Fa niente papà, ci sono appena stato.”

 

“Signor Cane, posso restare ancora un po’? La prego, io e la mamma ci stiamo divertendo tanto.”
“Se non andiamo via subito, rimarrai in questo tempo e non potrai più rivedere tuo padre.”
“Fa niente, voglio restare qui.”
“Cavoletto mio! Non dirai sul serio? Sai quanto sta male papà? Lui non può prendere la macchina del tempo di Signor Cane. È troppo ciccione. Rimarrebbe per sempre da solo.”
François ci pensò su un attimo. Voleva restare con mamma ma gli dispiaceva anche per papà. In fondo lui poteva salire su quella macchina tutte le volte che voleva, mentre papà sarebbe rimasto intrappolato da solo nel suo studio pieno di scartoffie.
“Non si dice ciccione,” – disse per far ridere ancora una volta sua mamma – “si dice denso!”
Poi salì sulla macchina rossa e tornò a casa.

 

MENZIONI D’ONORE agosto-settembre

A spasso con Stevie di Mister M.
Il racconto di settembre che ci ha più divertito, stupito e lasciato con un buon sapore in bocca. Mister M. ha una scrittura ritmata come una canzone rock, un’ottima tecnica camuffata dal registro leggero e uno sguardo unico sul mondo. Il suo Primo Levi meritava a luglio, impossibile esimersi su Stevie.

 

Padri e figli di Andrea Amitrano
Perché è scritto bene e soprattutto delinea a dovere i personaggi, che non si appiattiscano mai ma sono caratterizzati riga per riga. Non è da tutti.

 

 

Susan di Cyrcle Bob
Cyrcle Bob ci aveva folgorato a febbraio con le sue lettere dall’eternità. La verità è che ognuno dei suoi 8 racconti ha il potere di “ucciderti piano”, come cantava Roberta Flack. I dialoghi tra le sue Thelma&Louise meritavano il podio.

 

 

GIURIA POPOLARE di agosto-settembre

E ora la classifica della Giuria Popolare per accaparrarsi l’ambitissima lampada libro. Per una manciata di voti vince “DIFFICILE SFUGGIRE A SE STESSI” di Giovanna Adelaide Busacca, che scippa il premio ad “Agnese” di Elena Barsottini per due soli cuori. Dietro a distanza contenuta la nostra fan-favorite Luisa Di Toma con il racconto dark d’avventura “La curiosità uccide”.

 

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