luglio 2019

Il Breve Scrittore felice di luglio è VIRGINIA CORAL con la sua flash-fiction Sono morta come parola
Il nostro giudice d’onore Antonio Coletta ha scelto questa penna felice su tutte le altre per la sua scrittura composta e perché in un testo così breve è riuscita a rendere a pieno un’intera esperienza umana e a ribaltarla su un oggetto inanimato senza perdere mai il ritmo in note superflue.
Complimenti a Virginia Coral per un puro momento di letteratura su BREVESTORIAFELICE!

Intervista alla nostra prima vincitrice, la Breve Scrittrice Felice di Luglio: Virginia Coral

Virginia detestava i diari da bambina, tutte le sue compagne delle scuole medie li scrivevano, ma lei no, lei scriveva racconti, e li infilava sistematicamente nel cassetto perché temeva che non fossero sufficientemente belli.
Fino a 15 anni ha letto solo racconti di Re Artù e Topolino, poi è arrivata l’università, di lingue, un’oasi di letteratura in cui immergersi ogni giorno come in un lago calmo che profuma di antico e di fiori, e dove tutto scorre lento, perché lenti sono i gesti più eleganti.
La sua scrittura è come un disegno intessuto su un telaio da cucito, con precisione e dedizione, parola dopo parola, e se un punto è sbagliato si riparte dal principio, si disfa un ricamo e si guarda in su dove vanno a lievitare le immagini più evocative e le frasi più eterne.
Quasi tutti i suoi scrittori preferiti sono donne, e anglosassoni. Il suo nome de plume è Virgina in onore alla scrittrice preferita, Virginia Woolf, una donna così cervellotica e spessa da non avere tempo per la paura. Virginia nel suo cassetto non deve mai aver rinchiuso niente, forse solo i trucchi per imbellettarsi.
Coral invece è il cognome della sua bisnonna.
Poi c’è Jane Austin, che scrive troppo bene, e J.K. Rowling, che potrebbe scrivere di tutto.
I soli uomini ammessi nella sua libreria sono pezzi da novanta, anzi il primo è l’unico vero pezzo da cento della letteratura: William Shakespeare. “Un genio assoluto”.
Appena sotto: Pirandello, tutto quanto, Il nome della Rosa di Umberto Eco, I Tre Moschettieri di Dumas, Congo di Michael Crichton, Edipo sulla strada di Henry Bauchau e il Premio Pulitzer Momaday. C’è anche “Non buttiamoci giù” di Nick Hornby, perché Virginia va pazza per lo humor inglese, per quel compassato sarcasmo con cui macinano vita e passioni al di là della Manica.
Ne ha bisogno anche lei nella sua vita lavorativa: la mattina si alza e fino alle sei di pomeriggio si occupa di ricerca clinica su farmaci sperimentali, poi entra in casa, si sdraia sul divano, aspetta che i suoi due gatti le si accoccolino addosso e inizia a battere sulla tastiera, a ricamare un nuovo racconto o un nuovo romanzo. Ce ne sono ormai diversi stivati nel famoso cassetto.
La prima volta che si è decisa a inviare uno scritto ad un concorso è stato pubblicato, e lì è nato il bisogno di trovarsi uno pseudonimo.
“Si trattava di una collana di 365 racconti erotici a cura dello scrittore e sceneggiatore Franco Forte. Come esordio per una ricercatrice farmaceutica non c’è male. Ho rivisitato la fiaba della Principessa sul pisello.”.
La seconda volta è toccato ad un romanzo farsi carta, per la casa editrice Montag: “Agatha e l’isola del vento”, ispirato a Monsieur Ladoucette e il club dei cuori solitari di Julia Stuart.
Della flash-fiction adora la necessità di soppesare ogni parola, di scegliere con cura solo le immagini che hanno diritto a stare sul foglio.
“Mi diverte e mi aiuta ad eliminare ogni forma di ridondanza.
Vorrei dare un consiglio a tutte le persone che vorrebbero partecipare ai contest…Non abbiate paura del parere degli altri, non fate come me. Io ho lavorato tanto e scritto poco, mentre oggi so che avrei dovuto fare l’esatto contrario.”.

 

SONO MORTA COME PAROLA di Virginia Coral

Ero una parola e sono morta. L’intento di chi mi ha creato era buono. Mi aveva dotato di una sola accezione, in nome della logica e dell’etica. Andavo fiera del mio significato, lo sbandieravo ai quattro venti, come un dipinto antico, che non passa mai di moda.
Non so come, sono finita tra le fauci di un mistificatore. Mi ha visto un giorno in un libro e mi ha afferrato. Il suo indice ha accarezzato la pagina nel punto esatto, dove mi trovavo. Brividi di paura sono corsi lungo il filo d’inchiostro che componeva le mie lettere. Dal suo sguardo era chiaro che gli piacevo. La mia radice era pregnante e le sillabe formavano una melodia. Mi ha sistemata nel suo emisfero sinistro. Ho cercato di uscire da quella testa confusa, mi sono nascosta tra le scissure del cervello perché non mi trovasse, ma non c’è stato nulla da fare. Era deciso a sfruttare le mie potenzialità.
Lo scrittoio dell’aguzzino era un tavolo chirurgico. Si divertiva a sezionare vocaboli e locuzioni, accoppiava verbi e soggetti incoerenti, convinto che l’unione di elementi contrastanti producesse nuove entità prestigiose. Così iniziò a tormentarmi: mi abbinava a neologismi idioti, mi spezzava, poi mi ricomponeva, come faceva Picasso con i volti di donna. Il risultato però non era altrettanto brillante.
Cercai di fargli capire che la linea di confine tra originalità e cattivo gusto è sottile come il capello di un neonato. Ma lui continuò gli esperimenti, impermeabile a ogni protesta. Allora mi ribellai, urlando e tirando calci. Inutilmente.
Ho tentato di tutto per restare integra: tenevo strette le consonanti, afferravo le vocali quando le vedevo scivolar via, finché ho perso le forze e mi sono lasciata andare. Le lettere che mi componevano sono ruzzolate a terra come le perle di una collana spezzata. E io mi sono smarrita in una realtà che non conoscevo. È stato così che ho perso la mia essenza, annegata nelle frasi sgrammaticate, nelle citazioni frettolose. A quel punto avevo innumerevoli sfumature, ma nessuna verità.
Poi, un bel giorno mi sono ritrovata vicina ad altre parole. Ho notato che erano genuine e autentiche. È stato facile familiarizzare. Il vissuto era comune: ci accomunavano delusione e sconforto. Ma in tutte noi era rimasto un fondo di energia e la maledetta voglia di esprimerci.
Così siamo rinate come aforisma, uno di quelli che fanno pensare e cambiano la vita alla gente. Un motto chiaro e potente, valido per tutte le occasioni, in cui i buoni si riconoscono e i cattivi prendono coscienza degli errori, provando vergogna.
Siamo ai primi passi, ma i sogni sono tanti. Vogliamo arrivare alla mente di un bambino, perché cresca nutrendosi del nostro succo, oppure raggiungere il cuore di un vecchio, perché possa cullarsi nella certezza di aver percorso la giusta via. Toccare il cuore di un banchiere, perché recuperi dalla soffitta i mattoncini del Lego e ricominci a giocare. O, ancora, far nascere dubbi in chi ha solo certezze.
Cinque parole, non di più, ma solide come una lapide di marmo. Un pugno di tracce luminose per decifrare il mondo e renderlo migliore.
Questo progetto mi ha ridato speranza. Forse posso ancora avere un senso, una seconda esistenza. Io in armonia con altre compagne, perché da soli si rischia l’estinzione

 

Secondo classificato: MARIO SARONNE con la sua flash-fiction Cavaliere in distress La redazione di BSF premia questa penna felice per l’originalità del soggetto, per la bravura nel far precipitare il lettore nei mondi in cui precipita il protagonista, con pochi e calibrati tratti, e per il finale perfetto.

Intervista al Secondo Classificato del contest di luglio: Mario Saronne

Mario Saronne è un pozzo di scienza quanto a storytelling. Ha visto più serie televisive lui di tutti gli impiegati a Netflix messi assieme, e quando Netflix non basta, smanetta su youtube per filmati “d’essais”. Per esempio, il risveglio del suo Cavaliere in distress durante la Prima Guerra Mondiale è figlio di una monumentale produzione youtube sul Grande Conflitto: ossia la cronistoria di tutta la Guerra raccontata in tempo reale, settimana per settimana, a cent’anni dall’accaduto.
Idem per la scena della battaglia, un omaggio condensato in poche righe al Barry Lyndon di Kubrick.
Mario pensa, cucina e sogna per immagini. Del resto, per un produttore televisivo che ha studiato cinema a New York, il mondo si muove in diapositive; dietro ad ogni angolo c’è un’inquadratura, dietro ad ogni storia c’è un film in potenza. Anche se per il suo Cavaliere avrebbe bisogno di ricorrere a un regista degli anni 70.
“La capacità introspettiva è in quegli anni che ha raggiunto i suoi massimi livelli dietro alla cinepresa”.
Quando si tratta di leggere, invece, spazia da Moon Palace e la Trilogia di Paul Auster, ai libri di genere hard boiled (un noir pulp sui generis) di Mickey Spillane, passando per un imprevedibile Francis Scott Fitzgerald di cui Mario ha praticamente letto tutto.
Forse è a quest’ultimo che il suo Cavaliere deve una spiccata vena romantica ed estetica allo stesso tempo…
“Il finale è nato per contrasto con le morti eroiche precedenti. Ci sono tanti modi di morire, ma attaccato ad un macchina, senza poter combattere, la trovo la morte più asettica, mentre nell’azione, per quanto violenta o truce possa essere, la morte è un’altra forma di vita.”.
Prima della flash-fiction per Breve Storia Felice aveva scritto compiutamente solo un’altra volta, a New York, per il corso di cinema: una sceneggiatura per un corto intitolata “Dead End”. A suo dire una versione “pedonale” di Duel di Spielberg, dove un pedone attraversa la strada fuori dalle strisce, imbufalendo a tal punto un conducente di auto da spingere quest’ultimo a inseguirlo fino ad ucciderlo.
“Le volte dopo mi sono limitato a scrivere incipit di racconti più ambiziosi che ho sempre lasciato a metà… La flash-fiction questo ha di bello: che chiunque abbia mai avuto voglia di scrivere o di emozionare, ma non ha mai avuto né il tempo né la convinzione necessari, può cimentarsi e divertirsi in una mezzora scarsa della propria giornata.”.
Noi speriamo ci abbia preso gusto.
A lui, intanto, piacerebbe scrivere come Sandrone Dazzieri, il suo autore italiano preferito, che racconta la mente umana e le storie attraverso colori accessi e decisi, dividendo il mondo in buoni e cattivi per poi riunirlo sotto all’unico cappello che accomuna entrambi: le idee brillanti.

Cavaliere in distress di Mario Saronne

Cazzo, odio morire. Ma la cosa più brutta è risvegliarsi ed essere qualcun altro!
Questa è la quarta volta credo, perché ad ogni morte i ricordi delle vite precedenti si fanno di volta in volta più opachi e lontani. Se ci penso, mi si attorcigliano le budella. Sì, perché come dicevo, è brutto risvegliarsi ed essere qualcun altro, ma la sfiga peggiore è risvegliarsi ed essere…
OK non vi dico tutto subito, altrimenti è troppo facile.
Il risveglio più lontano che mi ricordi era in una cazzo di battaglia. Doveva essere la fine del settecento, non lo so con precisione, perché mi sono  risvegliato ed ero in un plotone di fanteria, penso francese. Ho visto la pianura incredibilmente piena di esseri umani e cavalli, di cannoni e bandiere, ho visto la foresta che delimitava la pianura alla nostra destra, una foresta di querce. Stormi di uccelli che si alzavano dagli alberi ad ogni cannonata e ho visto, SBRAM, la palla che mi ha centrato in pieno petto.
Subito dopo mi sono svegliato e di colpo mi sono sentito a mio agio: le lenzuola erano fresche, i cuscini morbidi e di fianco a me, sdraiata, una donna dai capelli lunghi rossi, la pelle bianca e le labbra di un rosa quasi anemico. Mi ricordo che ho pensato come la situazione fosse completamente diversa da quella da cui ero appena arrivato. Certo, sentivo ancora il dolore lancinante al torace, cosa strana visto che non ero più la stessa persona, però adesso ero in un ambiente ricco, anzi sontuoso, e soprattutto avevo una splendida donna al mio fianco. In quell’istante vedendo la sua espressione rilassata e tranquilla e soprattutto vedendo quel sorriso morbido che attraversava il suo viso, ho avuto la sensazione di aver dato grande prova di me quella notte, senza tuttavia ricordarmela. Ed è proprio mentre mi stavo crogiolando in un momento di autocelebrazione totalmente ingiustificata che ho visto la lama del fioretto attraversarmi il costato.
A questo punto non c’è bisogno di dirvi di essermi svegliato nelle vesti di qualcun altro. Ero in una cazzo di trincea, pioveva, tutt’intorno me fango, odore di merda, odore di zolfo, odore di morte. Io su una scala a pioli. Di fianco me altri uomini anche loro sulle scale a pioli e dietro di noi migliaia di uomini che aspettavano di salire su quelle scale a pioli.
Un lungo fischio iniettò il terrore negli occhi di tutti. E con il terrore negli occhi ci siamo lanciati verso il nemico. Non ne ho la certezza ma sono quasi sicuro sia stato un colpo di mortaio.
Adesso mi sono svegliato. Sono in un letto, ma questa volta è un letto d’ospedale. Nel naso sento due tubi, la mia testa non ha capelli. Le braccia cerco di non muoverle, gli aghi mi danno fastidio. L’unico suono che sento è il ritmo lento del mio cuore tradotto da una macchina elettronica.
Un po’ rimpiango le morti precedenti.

 

Terzo classificato: BARBARA ALESSANDRA con la sua flash-fiction Volumi bassi e alti volumi
La redazione ha scelto questa penna perché ha racchiuso in 300 parole organiche come un respiro la motivazione principale dietro alla nascita di Brevestoriafelice: usare i social in un modo migliore.
E poi ci ha stupito l’idea di risvegliarsi in sé stessi in un’epoca in cui provare ad essere qualcun altro è quasi un obbligo.

Intervista al Terzo Classificato del contest di luglio: Barbara Alessandra

Jennifer Beals in Flash Dance lavorava in fabbrica e poi andava a ballare negli strip club, Barbara fa la saldatrice: congiunge pezzi di prototipi aziendali con certosina abilità manuale e poi corre a casa a scrivere. O a nutrirsi di cultura.
Un tempo disegnava, sognava di fare la fumettista, di inventare cartoni animati, mentre oggi che a suo dire non ha più la mano allenata ai gesti della pittura, se ha voglia di comunicare qualcosa al mondo si rifugia nella parola scritta, il modo in cui sente di avvicinarsi il più possibile al bersaglio.
Legge da sempre, da quando era alta a sufficienza per raggiungere il primo scaffale della libreria di casa. Suo padre, pittore e scultore, aveva stretto un patto con lei.
“Ogni libro che riesci a prendere allungando il braccio, lo puoi leggere. Per gli altri devi aspettare di crescere in statura.”. E ogni anno veniva riaggiornata la disposizione dei libri, in un gioco di iniziazione all’arte che solo un vero artista sa mettere in piedi per una figlia.
Così è arrivata “La piccola Fadette” di George Sand e poi Pirandello, un sacco di Pirandello. E forse è per questo che la prosa del nostro terzo classificato ha un sapore aulico all’occorrenza, o vira improvvisamente verso il musicalmente gergale come i migliori dialoghi di teatro sanno fare.
Arriva anche Italo Calvino, e per difendere il suo valore artistico Barbara ancora ragazzina scaglia l’enciclopedia dalla finestra, in quanto colpevole di aver citato erroneamente la poetica dello scrittore.
Fortunatamente, o sfortunatamente a seconda dei punti di vista, nessuno rimane ferito nella Micropoli, come lei chiama la città in cui vive, e la vita scorre lenta e uguale senza che nessuno si preoccupi delle sorti del suo Italo.
A risollevare le notti, spesso insonni, ci sono nuovi piani dello scaffale e i libri regalati. Quando il libro è sottile, Barbara si arrabbia: “Ma è piccolo! Io voglio quelli grossi!”.
Arriva anche Paul Auster, al liceo, ed è colpo di fulmine.
“Ci sono frasi nei suoi romanzi che non devo neppure andare a rileggere. Ce le ho tatuate nella mente.”.
Per Barbara leggere è valicare i confini della Micropoli, è collezionare viaggi interiori: si appassiona alle penne giapponesi di Yukio Mishima, Kazuo Ishiguro e Haruki Murakami, anche se quest’ultimo, negli ultimi lavori, l’ha trovato pericolosamente noioso.
Ishiguro invece le ha fatto trascorrere delle notti diverse. Ride ancora mentre ce lo racconta.
“Ho scovato questo libro che si intitola Notturni e che è una raccolta di 5 racconti legati alla musica… Beh, mi sono prefissa di leggerli tutti quanti a notte fonda con la musica dei rispettivi racconti in sottofondo. Io, nel silenzio della Micropoli, che provo a inseguire quell’attimo a cavallo tra il sogno e il buio pesto perché è solo lì che esiste il senso esatto di quelle parole…”.
Ma Barbara è più di una lettrice devota, è una scrittrice esigente. Per il nostro contest di flash-fiction ha aspettato paziente l’ispirazione giusta, quella che ti parla nelle orecchie perfino in fabbrica. Ha mollato la saldatrice e si è messa a scrivere di getto per quattro minuti di febbre.
“Cosa c’è di più kafkiano di risvegliarsi di nuovo in se stessi? Cosa può essere più kafkiano di una metamorfosi che ti fa rinascere te stessa ma molto più demente?…”.
Potrebbe scrivere saggi, anche manuali per gli ingegneri che regolarmente le passano progetti sbagliati, ma la verità è che ogni volta che si rifugia nella parola scritta assomiglia molto di più a un alieno benevolo che traccia cerchi concentrici nei campi di grano.
Chissenefrega se non si vedono da terra, l’importante è che qualcuno li decifri dal cielo.

Volume basso ed alti volumi di Barbara Alessandra

Quella mattina Barbara Alessandra si destò da sogni inquieti con una strana sensazione, come se non ricordasse più nulla del suo essere.
Una nebbia fitta era scesa sul suo io più profondo, ma senza peso apparente sulla donna in superficie.
Riemerse da quel sonno come se le stesse immagini oniriche le avessero fagocitato i pensieri. Andò in bagno, si specchiò, ma non notò nulla di strano, nulla di diverso. O forse sì.
Le nebbie in fondo sono tutte uguali, avvolgono le piante per nutrire i frutti.
Si spostò in sala e, guardandosi intorno, vide molti libri che non ricordava, né di avere comprato né di aver letto.
Spinta da una forza misteriosa fece una cosa che mai e poi mai aveva fatto prima di allora: prese il telecomando della televisione e si sintonizzò sul canale dove per ventiquattro ore trasmettevano il telegiornale. Ipnotizzata da quelle notizie, iniziò ad inveire contro i migranti, le tasse, i clandestini, i buonisti, i trappisti, i governi, Cip&Ciop, le genti tutte e le scie chimiche che stavano uccidendo il genere umano.
Prese il tablet e, a social unificati, scrisse un bel post indignato; non prima però di aver augurato un buongiornissimo ai suoi virtuali e virtuosi amici.
Era l’inizio della fine; quel sonno poco ristoratore l’aveva irrimediabilmente trasformata nell’italiano medio, cieco e sordo, ma con la pericolosa possibilità di scrivere il proprio disagiato parere su un muro invisibile che ironia della sorte è diventato il più visibile a tutti.
Un barlume di consapevolezza si impossessò di lei e in un attimo a cavallo tra la trasognanza e l’istinto evolutivo di Darwin capì che la situazione era, sì drammatica, ma reversibile, occorreva solo spegnere il televisore, usare i social media in maniera utile e soprattutto rimettere occhi e mente su quei libri che avevano reso l’altra sé una persona migliore.

MENZIONI D’ONORE


Il corvo bianco di Morgana perché a sto mondo serve ancora qualcuno che ce lo sappia raccontare attraverso una favola…


Storia d’Ivano di Piero Ferrari per il registro satirico con cui ci ha raccontato un male che affligge molti.
Albertone (Sordi) dal cielo sta sorridendo a Ivano.

 

 


12% di Alice Blu per il modo con cui la sua prosa asciutta e pop (quasi anglosassone) ha fatto pace con una lingua romanza e un sentire italico.



I VINCITORI DELLA GIURIA POPOLARE
ossia i due racconti che hanno ottenuto il numero più alto di like combinando i voti di Facebook e quelli di Instagram

 

È stato un rush finale chiusosi solo nel pomeriggio dell’ultimo giorno grazie a uno scatto su Instagram.
Complimenti ad Alice Blu per il guizzo sul traguardo, ma anche a Morgana per la resistenza!

1° 12% di Alice Blu
2° Il corvo bianco di Morgana

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